La Gazzetta dello Sport, 3 giugno 2016
Ieri, festa per i settant’anni della Repubblica. Mattarella ha inviato un messaggio al capo di stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano: «I valori di libertà, giustizia, uguaglianza fra gli uomini e rispetto dei diritti di ognuno e dei popoli, sono ancora oggi il fondamento della coesione della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell’Europa»

Ieri, festa per i settant’anni della Repubblica. Mattarella ha inviato un messaggio al capo di stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano: «I valori di libertà, giustizia, uguaglianza fra gli uomini e rispetto dei diritti di ognuno e dei popoli, sono ancora oggi il fondamento della coesione della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell’Europa». C’è stata la tradizionale sfilata in via dei Fori Imperiali, con la novità dei 400 sindaci in marcia con la fascia tricolore, l’inno, le frecce tricolori, l’alza bandiera, i corazzieri a cavallo e la marcia di altri 3.600 militari, dai carabinieri ai bersaglieri, compreso un reparto con le uniformi della Prima guerra mondiale. La Prima guerra mondiale, a dire il vero, c’entra poco. E anche i 400 sindaci rappresentano alla fine uno sforzo minimo. Nel 1911, quando ci fu da celebrare il cinquantenario dell’Unità, vennero a Roma e stettero seduti in piazza Venezia ad assistere all’inaugurazione del monumento al Milite ignoto tutti gli ottomila primi cittadini del Paese.
• Non potremmo, per una volta, lasciar perdere le polemiche, ammettere che in definitiva siamo un grande paese?
Siamo così diversi da com’eravamo settant’anni fa! Lo si capisce guardando le facce di Lamberto Maggiorani e degli altri interpreti di Ladri di biciclette
. Volti scavati, la fame. Ma basteranno, per darle un’idea di quanto siamo diversi (un altro paese, rispetto ad allora, un altro popolo), queste due notizie di cronaca nera, riprese dai giornali del 2 giugno 1946. Dalla Stampa: «Sei banditi mascherati e armati di mitra sono entrati nella trattoria di Gallicano Freguglia, a Gorino Veneto, e hanno imposto al padrone di servire loro un lauto pasto innaffiato da vino in bottiglia. Dopo due ore si sono fatti dare dal Freguglia 45 biglietti da mille lire, due corredi completi di biancheria, due chili di sigarette, una bicicletta, due paia di scarpe». Questa viene dal Messaggero: «Svaligiato, dalle 15 alle 18 di oggi, il magazzino deposito viveri dell’Associazione pro vittime politiche, a Roma. Bottino: 4 quintali di pecorino, 3 di lardo, 3 di ventresca, 2 casse di scatole di pesce, scatolame di piselli, 200 chilogrammi di farina». Sono colpi che oggi non fanno neanche i nostri migranti. A quel tempo era razionato il pane, erano razionate le sigarette, la fame era tale che si temeva la sparizione del popolo italiano, gli americani ci aiutarono con rimesse per 435 milioni di dollari (solo per il periodo gennaio-giugno 1946)
• Parliamo di politica.
È molto semplice. Dovendosi votare il 2 e il 3 giugno, il re Vittorio Emanuele III si dimise molto astutamente il 9 maggio, per dare qualche possibilità in più alla Monarchia. Il 2-3 giugno, infatti, si trattava di eleggere l’Assemblea costituente, 573 deputati chiamati a scrivere una nuova costituzione, che rimpiazzasse il vecchio Statuto albertino, in vigore dal 1848. E poi di scegliere la forma istituzionale, se cioè dovevamo restare una monarchia o diventare una repubblica. Sulla scheda c’erano i due simboli: per la Repubblica la donna turrita sullo sfondo dell’Italia, per la Monarchia, sempre sullo sfondo dell’Italia, lo stemma dei Savoia. Togliatti, che era ministro della Giustizia, s’arrabbiò moltissimo per le dimissioni del re, a suo parere un grosso assist alla causa monarchica. Umberto II era invece convinto di perdere. Andò a trattare col presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, le modalità della sua partenza per l’esilio già la mattina del 3.
• Ci hanno fatto una testa così col voto alle donne.
Il diritto di voto delle donne era stato stabilito l’anno prima, con un decreto del 31 gennaio 1945 emanato dal governo Bonomi. Le donne votarono per la prima volta non il 2-3 giugno 1946, ma alle amministrative del 10 marzo-7 aprile, le prime del dopo guerra. Si presentarono in cabina in 8 milioni e mezzo. L’elettorato maschile non raggiunse gli otto milioni. Il 2 giugno, tra le altre cose, gli si consigliò di non entrare in cabina col rossetto: nell’umettare con le labbra il lembo da incollare, avrebbero potuto sbaffare la scheda e renderla nulla.
• Risultato finale?
Vinse la Repubblica, come saprà anche lei, 12 milioni di voti contro i 10 milioni di voti per la Monarchia. Ci furono brogli? Forse. Nel corso dello spoglio, fino alle due di notte, pareva che stesse vincendo la Monarchia. A quel punto il ministro dell’Interno, Giuseppe Romita, socialista e repubblicano, avrebbe estratto dai cassetti un milione di schede precompilate. È una storia che si racconta, ma a cui non credo. La Monarchia all’inizio era in vantaggio, perché si cominciò dalle schede del Sud. E il Sud era monarchico.
• Che cosa capiamo, guardando dall’alto del 2016 l’Italia del 1946?
Che loro, morti di fame, erano ricchi di un bene che oggi risulta molto scarso. Cioè, la speranza. Mentre noi, ben pasciuti, siamo ricchi di qualcosa che i nostri nonni e padri quasi non conoscevano. Vale a dire, l’indifferenza.