la Repubblica, 2 giugno 2016
La sapete quella del razzista italiano che va a trovare il razzista americano, ma il razzista americano è talmente razzista che non vuole incontrare il razzista italiano?
La sapete quella del razzista italiano che va a trovare il razzista americano, ma il razzista americano è talmente razzista che non vuole incontrare il razzista italiano? Anche non volendola buttare in barzelletta, il caso Salvini-Trump è parecchio ridicolo, e lo è nel solco di una ingloriosa tradizione della politica nostrana: la gita negli Usa per farsi benedire dall’amico americano è un classico del provincialismo italiano di destra, di sinistra e di centro. Certo non ci sono più gli americani di una volta, gli Eisenhower, i Kennedy, i Clinton, che almeno una vaga idea di dove fosse l’Italia, o per memorie di guerra o perché conoscevano “Arrivederci Roma”, ce l’avevano. È probabile che Trump, il cui livello di istruzione equivale a quello di una scuola materna europea di medio livello, collochi gli italiani genericamente tra i latinos, popolazioni scure e rumorose da tenere a bada per evitare che diventino invadenti. Fatto sta che nessun politico italiano, anche quando non scuro e rumoroso, riesce a figurare, quando va in America, molto diverso da un albertosordi in visita deferente, anche se lui va a fare lezione a Yale e il suo americano di riferimento è un pisquano pieno di long drinks. Ove gli Usa decadessero orribilmente (ci siamo vicini…), gli ultimi ad accorgersene saranno i leader italiani, in lista d’attesa fino al 2150, quando l’America sarà una colonia cinese.