Libero, 1 giugno 2016
Il calcio ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca
A Vincenzo Paliotto (1973) piace raccontare il calcio del passato senza astrarlo dal contesto storico, cercando piuttosto in esso tratti, fatti, personaggi che ne rimarchino le interrelazioni con la storia, quella «piccola», legata all’umanità degli uomini che l’hanno praticato, e l’altra, quella condizionata dai grandi interessi, economici e finanziari.
Così questo Stasi Football Club. Il calcio al di là del Muro (Urbone Publishing, pp. 100, euro 12) ricostruisce sì, con numeri, com’è giusto che sia, ciò che è stato il calcio in una nazione, la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), che non esiste più (fondata nel 1949, scomparve nel 1990 con la riunificazione delle due Germanie), ma soprattutto racconta intrighi e umanità varia di quel mondo ormai scomparso o al più confluito nel sistema costituitosi con la nascita della nuova Germania unita. Avendo per oggetto uno sport esercitato al tempo di un regime dittatoriale, la Germana comunista satellite per oltre quarant’anni dell’Unione Sovietica, il primo dato che Paliotto non può evitare di raccontare è l’ingerenza della politica, meglio di un Ministero (quello per la Sicurezza dello Stato, la cosiddetta Stasi), ancor meglio, di colui che per 32 anni è stato a capo di quel Ministero, Erich Mielke. Trasformata nel 1953 da Volkspolizei Berlin a Dynamo Berlin, la squadra individuata dal capo della Stasi trovò subito la strada (politicamente) spianata per poter primeggiare in campionato e, auspicabilmente, anche nelle competizioni europee. Come ricorda Paliotto, fu Mielke infatti a costringere i migliori giocatori della Dynamo Dresda, fino ad allora la squadra più prestigiosa della DDR, a trasferirsi nel «suo» club. Trasferimenti che allora significarono anche allontanamento dalle famiglie, senza particolari vantaggi economici (ovviamente), quindi malumori. A dimostrazione che anche nello sport la vita non si lascia manipolare facilmente dal potere, il dominio assoluto della Dynamo Berlino iniziò solo nel 1979, per durare poi una decina d’anni, praticamente fino al crollo del Muro.
La storia ricostruita da Paliotto, non fosse perché relativa al dramma dell’illibertà imposta per decenni a 16 milioni di tedesco orientali, si legge gradevolmente e d’un fiato. Vi si narra di rigori inventati, di doping, di fughe tentate e riuscite all’Ovest, di arbitri che di mestiere facevano gli agenti della polizia segreta, come Adolf Prokop, la cui promozione ad arbitro internazionale, dal 1972 al 1988, venne usata evidentemente da Mielke come attività di sostegno all’attività spionistica della Stasi. Così come vi si raccontano, anche se succintamente, le storie di squadre come la Lokomotive Lipsia, il Karl Zeiss Jena, l’Hansa Rostock, la Rot-Weiss Erfurt, la Chemie Halle (oltre alle già citate Dynamo di Berlino e di Dresda). Club che o non esistono più, o, legati come sono, magari con altro nome, a città ancora condizionate dal passato comunista, non riescono ad uscire dalle secche della seconda e della terza divisione. E c’è infine la cronaca del mitico goal di Jürgen Sparwasser, che il 22 giugno 1974, ad Amburgo, durante la prima fase del Campionato del Mondo, permise alla DDR la storica vittoria «operaia» sugli strapagati occidentali della Repubblica Federale di Germania: «Quanti ne becchiamo?», così la raccontò in seguito Sparwasser, «Di questo si parlava. Noi contavamo sul catenaccio, non avevamo tattica, arrivavamo al calcio come scarti di altre discipline, spesso dall’atletica. Noi eravamo solo degli onesti somari. Non so perché, forse presi dal panico, cominciarono a buttare tutti palloni alti. Müller era piccolino, noi più grossi. E poi Beckenbauer disse quel nome: Waterloo».
Quindici anni dopo quegli stessi «onesti somari» tedesco orientali, mossi da libertà, furono i protagonisti della rivoluzione pacifica che fece crollare il Muro e con esso un intero mondo illiberale.