il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2016
Il formalismo dei giapponesi e quel sordo e fortissimo rancore contro gli americani non solo per la bombe ma anche per avere imposto loro la devinizzazione dell’Imperatore
Obama è il primo presidente degli Stati Uniti che è andato a Hiroshima per rendere omaggio alle vittime di quell’orrore. Non si è scusato come qualcuno chiedeva. E ha fatto bene. Bisogna almeno essere all’altezza dei propri crimini. Le scuse postume sono solo una forma di ipocrisia che rende ancora più odiosi quei misfatti. E quello di Hiroshima e Nagasaki (140 mila vittime a Hiroshima, 60 mila a Nagasaki e qualche centinaio di migliaia i morti in seguito per varie forme di cancro, più 140 mila hibakusha, persone tuttora radioattive) è stato il più grande della Storia.
Anche perché la Bomba su Nagasaki seguì di 3 giorni quella di Hiroshima e quindi gli americani sapevano benissimo quali ne erano gli effetti. La favola che la Bomba fu gettata per finire la guerra e quindi risparmiare altri milioni di morti è appunto una favola. La Bomba fu gettata per due motivi. Uno, minore, come ha scritto Umberto Eco, era avvertire l’Urss che gli americani possedevano quest’arma micidiale. Duecentomila morti per mandare un messaggio, non c’è male.
L’altro motivo, poiché la Bomba non aveva per obbiettivo strutture militari ma la popolazione civile, era di logorare la resistenza del popolo giapponese. Proprio come era avvenuto, sia pur con armi più convenzionali, a Dresda e Lipsia dove, per dichiarata decisione dei comandi americani, bisognava colpire i civili “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco”. E qui i civili morti furono alcuni milioni.
Sky Tg24 ha intervistato alcuni giapponesi di Hiroshima e Nagasaki e ha chiesto loro che cosa pensassero della visita di Obama. Tutti se ne sono dichiarati felici. Non è possibile. Perché sotto lo straordinario formalismo dei giapponesi, che è la loro prima pelle, la pelle di superficie, cova un sordo e fortissimo rancore contro gli americani non solo per Hiroshima e Nagasaki ma anche per avere imposto loro la devinizzazione dell’Imperatore. In Giappone l’Imperatore non è una persona fisica, ma un’astrazione, è il simbolo stesso del Giappone. In tutta la storia del Giappone non c’è stato un solo attentato all’Imperatore. Eppure il Palazzo imperiale di Kyoto, costruito in legno, ha mura di difesa così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle con facilità.
I giapponesi non parlano mai di Hiroshima e Nagasaki e se cerchi di portarli sull’argomento cambiano discorso. E anche questo è un segnale.
Nel 2006 fui invitato a tenere all’università di Kyoto una conferenza sul tema ‘americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell’Europa’. L’altro relatore era un filosofo tedesco della scuola di Francoforte. Poi c’erano alcuni co-relatori, che dovevano replicare, fra cui un trentenne americano che sembrava per pettinatura e il modo di vestire una copia giovanile di George W. Bush. Si comportava con la consueta arroganza con cui si portano gli americani all’estero, ma non si rendeva conto del disagio che provocava. I giapponesi presenti, cerimoniosi e formalisti come sempre, non facevano trasparire nulla di questo disagio che però osservandoli con attenzione, avvertivi.
Più significativo è un altro aneddoto. Io ero arrivato in Giappone proprio dopo una partita di baseball (sport in cui i nipponici sono molto forti) fra la nazionale giapponese e quella americana dove gli Usa avevano vinto per 4 a 3 con un punto contestato. Ebbene per tutti i venti giorni che sono stato lì lo Yomiuri Shimbun e lo Asahi Shimbun, quotidiani serissimi, che si occupano solo di economia, di finanza, di questioni internazionali, sono andati avanti a scrivere di quel punto contestato. Evidentemente sotto covava qualcos’altro. Del resto nel 1986 il neoministro dell’Educazione giapponese, Masayuki Fujio, riferendosi ai processi di Tokyo osò porre la scandalosa domanda “Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?”. Naturalmente fu subito tacitato dalla cosiddetta ‘comunità internazionale’ e poco dopo defenestrato.
La violenza repressa di questo popolo viene fuor in qualche piccolo gesto incontrollato. Li fermi per chiedergli una strada e loro, gentili, cortesi, cerimoniosi ti ascoltano. Poi d’improvviso il braccio scatta in avanti, teso, in un gesto duro e perentorio e gridano “Ai!”. Ti stanno solo indicando la direzione, ma, per un attimo, nella loro mano tesa è spuntata la spada del samurai.
Scendete per la Chivodori, una delle strade principali di Tokyo, in un traffico ordinato, silenzioso, senza colpi di clacson, avendo come rumore di sottofondo solo quello dei treni del metrò quando passano, ogni minuto o due, nei tratti allo scoperto. Passeggiate per questa via che è quella dell’high tech, con decine di negozi e dagli schermi delle tv piazzate in ogni vetrina vedete un combattimento di scarafaggi con una folla urlante che tifa per il campione su cui ha puntato.
Certo oggi il Giappone, efficientissimo, tecnologico (basta scendere all’enorme aeroporto Narita di Tokyo e fare un confronto con lo scalcagnato Jfk di New York per rendersi conto delle differenze) è per gli americani una specie di ‘quarta sponda’ e i rapporti economici, finanziari, diplomatici fra i due Paesi sono intensi e ottimi. Ma sono convinto che fra trent’anni, se il mondo esisterà ancora, i giapponesi tireranno fuori dal sottosuolo di qualche isola dove le hanno nascoste, una trentina di Atomiche e le getteranno su New York.