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 2016  giugno 01 Mercoledì calendario

Ci sono 46 milioni di nuovi schiavi nel mondo

Siamo ormai disabituati alla parola «schiavitù», un termine che rimanda, nell’immaginario collettivo, ad epoche passate. Eppure gli schiavi sono ancora tra noi, anche se non ce ne accorgiamo, nascosti come sono tra le pieghe di attività criminali messe in piedi da chi ancora oggi punta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
L’Indice della schiavitù globale 2016 – iniziativa della Walk Free Foundation nata nel 2002 per volontà del magnate dell’industria mineraria australiana Andrew Forrest e della moglie Nicole – ci racconta delle nuove schiavitù (dalla tratta di esseri umani al lavoro forzato, dai matrimoni forzati allo sfruttamento sessuale), ne descrive le dinamiche e segnala la reazione dei governi. Il risultato è una graduatoria che vede al primo posto Olanda e all’ultimo la Corea del Nord sul fronte della lotta contro questi fenomeni, mentre Filippine e Qatar sono ai due estremi – positivo e negativo – quanto a risorse impiegate rispetto al Prodotto interno lordo. Il rapporto 2016 indica una crescita della schiavitù globale del 28 per cento rispetto a due anni fa. Si conferma che la maggior parte della popolazione in condizione di schiavitù, stimata in 45,8 milioni, si concentra per i due terzi in Asia, con cinque Paesi del continente che assommano il 58 per cento del totale, ovvero 26,6 milioni di individui. L’India mantiene il primato con 18,35 milioni di abitanti considerati schiavi dal rapporto, seguita da Repubblica popolare cinese con 3,39 milioni, Pakistan con 2,13 milioni, Bangladesh con 1,53 milioni e Uzbekistan con 1,23 milioni. Forse non inattesa ma comunque particolare la situazione della Corea del Nord, che non solo ha il più alto tasso di schiavitù tra gli abitanti (4,37 per cento su 23 milioni di nordcoreani), ma manifesta anche il minore impegno per cambiare una situazione che soggiace principalmente alle logiche del suo regime. Regimi e ideologie sono a volte alla base della presenza di schiavitù, ma rilievo hanno anche le contraddizioni delle società del benessere raggiunto o prossimo e gli interessi economici che in esse giocano. A fare da sfondo, poi, sono sovente anche nazionalismo o tradizioni discriminatorie.
L’India mostra tutte o quasi queste tipologie, con i gruppi più interessati dalla schiavitù che sono anche quelli storicamente più emarginati, in particolare dalla tradizione socio-religiosa induista. Situazione simile in Pakistan, ma con l’islam a dominare e i gruppi meno favoriti al suo interno e le minoranze religiose a subire.
In Cina ad alimentare le aree della moderna schiavitù è soprattutto l’interesse economico, che accentua però l’antica discriminazione verso la donna, da un lato, e dall’altro la diversità di opportunità e privilegi tra popolazione rurale e cittadina. Più di recente, le vicende mediorientali hanno evidenziato la condizione di schiavitù di migliaia di donne e di adolescenti, vere «prede di guerra» nelle aree occupate dai militanti islamici.
Per guardare all’Italia, è proprio di ieri la notizia di tre romeni che hanno raccontato di essere riusciti a scappare dopo un mese di «lavori forzati» da un ovile nelle campagne di Tiana, nel Nuorese. Hanno detto di aver lavorato alle dipendenze di un uomo che li maltrattava e negava loro anche il cibo. Sul caso indaga la Questura di Nuoro. I tre hanno raccontato di essere stati attirati in Sardegna con la promessa di un lavoro, ma al loro arrivo avrebbero trovato un ovile-lager dove il proprietario li avrebbe trattati come bestie. Stando al loro racconto, lavoravano tutto il giorno e parte della notte, mangiando un solo pasto, senza mai potersi allontanare dall’azienda. Domenica hanno deciso di ribellarsi e di scappare e sono stati avvistati dalla Polstrada. In generale l’Italia conta 129.600 schiavi, con una percentuale dello 0,211% sul totale della popolazione, un rapporto dieci volte peggiore rispetto alla Francia. L’Indice considera la risposta del governo italiano al problema tra le più deboli d’Europa. Nel mondo, nonostante i molti limiti, crescono coscienza e impegno: sono 124 i Paesi che hanno inserito finora nei propri codici il reato di sfruttamento degli esseri umani secondo il Protocollo specifico delle Nazioni Unite e 96 quelli che hanno attuato un piano di azione nazionale.