Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 01 Mercoledì calendario

Omar Torku, lo scafista con il potere di Dio: «Decideva lui chi doveva vivere e chi doveva morire»

Ho visto lo scafista, quello grosso, gettare in acqua tre donne eritree e due uomini somali”. Omar Torku è un siriano senza scrupoli. Prima del naufragio, sul suo barcone decideva lui chi doveva vivere e chi doveva morire. A raccontare alla Squadra mobile di Reggio Calabria cosa è successo il 27 maggio al largo delle coste libiche è Daniel, un ragazzo eritreo di 26 anni. È uno dei 121 superstiti salvati dalla Marina Militare e arrivati in Italia a bordo della nave Vega.
I verbali sono stati inseriti nel provvedimento di fermo emesso dalla Procura nei confronti non solo di Omar Torki, ma anche del marocchino Abdelfath Azridah. Trafficanti di uomini che adesso sono accusati di naufragio e di associazione a delinquere. Secondo gli investigatori guidati dal questore Raffaele Grassi e dal capo della Mobile Francesco Rattà, dietro tutto si nasconde un’organizzazione criminale con la quale, chi vuole raggiungere l’Europa, deve per forza entrare in contatto.
Come Abhir Ahmed, un insegnante di scuola, perito elettrotecnico che in Somalia un lavoro ce l’aveva. Non era adatto a lui però e il 13 marzo ha iniziato il suo viaggio. “Ho pagato 5 mila dollari americani – racconta il somalo – pochi giorni dopo sono stato trasportato a bordo di container, rimorchiato da un camion, sino alla città libica Binn Whalid. Dopo una breve sosta siamo ripartiti per Sabrata.
Ricordo che durante il viaggio, gli uomini dell’organizzazione erano tutti armati e hanno più volte avuto contatti amichevoli e cordiali con le truppe governative impegnate nei vari check point. A Sabrata ci hanno messo in ex edificio industriale per l’inscatolamento del pesce. Eravamo sorvegliati da libici con le divise militari ed erano armati con fucili mitragliatori”.
Faysal ha appena 20 anni. Partito dall’Etiopia, dopo aver pagato 5 mila dollari, racconta di essere stato venduto ai sudanesi da alcuni uomini del Ciad: “Erano armati”. Assieme ad altri migranti, quindi, è finito in un capannone gestito da un eritreo, tale Walid: “Lì sono stato picchiato”. C’è a chi è andata peggio: “Ho visto Walid ammazzare con la pistola due etiopi perché non avevano pagato la somma per il viaggio”.
“Siamo stati in mare circa sei ore – aggiunge – eravamo 400 o 500 tra uomini, donne e bambini”. Una vecchia barca in legno di colore blu, diventata la bara per centinaia di migranti: “Abbiamo iniziato a imbarcare acqua a causa di una falla nella parte inferiore. Dopo 30 minuti la barca è affondata. Cento di noi non sono riusciti a salire e sono affondati con la nave. Molte donne sono morte perché non sapevano nuotare. C’erano alcuni bambini, ne ho visti annegare due.
Avevamo pagato per avere i salvagenti, ma non c’erano. Chiedevamo aiuto. Lo scafista non ci rispondeva ma ha gettato cinque di noi in acqua, anche le donne che chiedevano di essere salvate”. Hussin è un somalo di 64 anni. Proprietario di un negozio di abbigliamento, tre mesi fa è partito per l’Italia. Voleva cambiare vita e trasferirsi a Torino; dovrà trovare sua moglie e il figlio di 14 mesi. Non sa dove sono. Sa solo che “sono partiti per l’Europa un giorno prima di me. Siamo stati divisi dai libici. Erano armati, sparavano per farci paura”.