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 2016  giugno 01 Mercoledì calendario

Il Muro degli Angeli, lì dove Alda Merini scriveva i suoi appunti, i numeri di telefono, oltre a disegnare qualche schizzo con il rossetto

«Mamma, che cosa pensi quando soffri?». È la domanda che una delle figlie di Alda Merini, a nove anni, poneva a sua madre sedendo con lei in cucina. La «poetessa dei Navigli» è morta il 1 novembre 2009. È stata ricordata, celebrata, osannata, fatta oggetto (tardivo) di un culto insolito per i poeti. Da allora, dopo il funerale al Duomo, si sono moltiplicate le pubblicazioni, le biografie, gli spettacoli, le letture, gli incontri in suo onore. Un museo, nella ex tabaccheria della Magolfa a Milano, a due passi dalla sua casa in Ripa Ticinese 47, sul Naviglio, ricostruisce i suoi spazi ed espone i suoi mobili e i suoi oggetti: il letto matrimoniale con il comodino, il comò e la specchiera, la poltroncina dove sedeva negli ultimi anni, il tavolo e la macchina da scrivere, le collane, il rossetto, i vestiti, lo smalto per le unghie, un mazzo di rose bianche. Sono state le quattro figlie – Emanuela, Flavia, Barbara, Simona – a donare i cimeli di Alda Merini al Comune di Milano. La ristrutturazione dell’appartamento in cui la poetessa aveva vissuto quasi tutta la sua vita, sin dal primo matrimonio con il panettiere (il «prestinaio») Ettore Carniti, minacciava di cancellare il cosiddetto Muro degli Angeli, la parete che faceva da spalla al letto, dove la Merini scriveva i suoi appunti, i numeri di telefono degli amici e dei conoscenti, oltre a disegnare qualche schizzo con il suo rossetto. Così, nel marzo 2012 fu completata la delicata operazione di trasferimento del muro nel museo di via Magolfa. Un frammento della parete dell’anticamera era stato salvato da Barbara Carniti, terzogenita di Alda, avvertita dalla vicina di casa quando stava per essere abbattuto il muro. Ora quel calcinaccio sopravvissuto, segnato da scritte a penna e a pastello rosso, viene messo all’asta da Bolaffi con altri oggetti appartenuti alla Merini: medaglie, targhe, ma soprattutto autografi, fotografie ed edizioni pregiate delle sue opere, compresa la prima edizione della raccolta poeta d’esordio, La presenza di Orfeo (pubblicata da Schwarz nel 1953). I lotti Merini saranno battuti all’asta il 16 giugno al Grand Hotel et de Milan (via Manzoni 29 a Milano). Altre cose Barbara ha deciso di tenerle per sé: il primo camice ospedaliero di sua madre, un bastone di legno con manico d’argento che Alda aveva regalato a uno zio di suo genero…
 
Perché questa vendita? Barbara ha la voce di sua madre, anche se meno catramosa di sigarette. Non nasconde i problemi economici della famiglia dopo l’incidente in moto del marito, rimasto disabile: «Spero che mia madre dall’alto mi benedica. Inoltre, vorrei aiutare un bambino del mio paese, Bollate, malato di cancro». Barbara è nata nel ’68, quando sua madre era già malata da un decennio, già più volte ricoverata in manicomio dopo il secondo parto. «Mio padre era cresciuto in una famiglia contadina, era senza genitori e fu tirato su dalle tre sorelle. Conobbe mia madre nel ’53 e dopo qualche mese di fidanzamento la sposò, ma si aspettava un altro tipo di donna, non sapeva che sua moglie fosse una poetessa, e non sapeva che cos’è la poesia, così nacquero delle incomprensioni. Quando mia madre ebbe le prime manifestazioni strane, lui non riusciva a placarla e chiamò i dottori, così lei finì in manicomio e mio padre soffriva, anche perché non aveva strumenti per capire».
 
Un padre amorevole e premuroso, incapace però di badare alle faccende di casa e di accudire alle figlie: «Un uomo elementare se per elementare si intendono gli elementi della natura. Il suo realismo mi tenne sempre in piedi», ricordava Alda. L’infanzia di Barbara è a Milano, in gran parte affidata a una famiglia, per un paio d’anni in un brefotrofio, l’Istituto Buon Pastore di via San Vittore. «Mamma arrivava ogni tanto, voleva essere presente, mi portava la tuta e suonava il pianoforte, siamo sempre stati in buoni rapporti, a seconda del suo stato di salute…». Quando muore Carniti, nell’83, Alda Merini si innamora di un medico e poeta tarantino con il quale è in contatto telefonico da tempo: Michele Pierri ha 85 anni. Alda lo raggiunge in Puglia e lì si sposano: saranno anni felici fino alla morte di lui, nel gennaio 1988. Per qualche settimana Barbara sta con mamma a Taranto: «Mi trattavano come una regina». Affidata a un’altra famiglia, compiuti i 18 anni deve darsi da fare, abbandonare la scuola di infermiera e cominciare a lavorare come operaia.
 
«Tornata a Milano, mamma mi ha sempre molto aiutata, anche quando non stava bene, un aiuto economico e morale, era una donna molto generosa, non era capace di fare una carezza o un abbraccio, ma sapeva usare le parole…». Una vita non facile, tra speranze e abbandoni che trascinano con sé la precarietà e la depressione anche per Barbara. «Quando ancora c’era papà, io andavo in Ripa Ticinese a trovare mamma il sabato e la domenica ed erano sempre momenti felici: lei non sapeva gestire le figlie però era molto affascinante, carismatica, magica anche se io non comprendevo la sua grandezza, la vivevo come una madre difficile, odiavo la sua scelta di dedicarsi alla poesia, perché più della follia era la poesia a portarmela via, a farle trascurare la famiglia. L’ho capita solo dopo, quando ormai stava per morire…». Ora l’ultimo pezzo della casa della sofferenza (e della felicità) va all’asta: «Quella parete era piena di numeri di telefono, la usava come una rubrica: accanto ai numeri non c’erano i nomi, ma lei sapeva perfettamente a chi corrispondevano e non sbagliava mai. Io la guardavo con stupore, negli occhi di mia madre ci si perdeva…».