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 2016  maggio 31 Martedì calendario

La Grande Guerra nei ricordi di Giovanni Comisso, scrittore con un gran bel caratterino

Aveva, Giovanni Comisso, un bel caratterino. Quando il 16 giugno del 1931 il direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli gli bocciò un articolo («Le restituisco questo elzeviro sulle Catacombe perché il tono generale non è adatto…, il paesaggio puro, a lungo andare, stanca») lo scrittore trevigiano rispose per le rime: «Ho capito la ragione per cui il mio articolo non va: a me le Catacombe danno fastidio, ma questo dispiacerebbe al Papa, il quale è abbonato al Corriere». Immediata la controreplica: «Caro Comisso, il caldo è responsabile di molte cose: debbo supporlo per elementare riguardo alla Sua intelligenza».
Lo scrittore Giovanni Comisso era nato a Treviso il 3 ottobre del 1895 da Antonio, rappresentante di granaglie. Studi tradizionali, voglia di evasione, dannunzianesimo, qualche poesia e poi, nel dicembre del 1914, la «formidabile rivelazione della vita»: la partenza come volontario nell’esercito in vista della Grande guerra. «Verso la fine del 1914 mi trovavo in campagna a Onigo di Piave, ospite di un vecchio amico della mia famiglia. Una sera, di ritorno dai colli, trovai un telegramma per me: mio padre mi richiamava a Treviso, per raggiungere il reggimento a cui ero stato destinato. Partii quella sera stessa». Sono le prime righe di Giorni di guerra, un libro concepito tra il 1923 e il 1928 ma pubblicato solo nel 1930, quando già era uscito Il Porto dell’amore (1924) sull’avventura fiumana. Dopo la prima edizione, il libro fu ripubblicato nel 1952 con l’aggiunta di quattro nuovi brani (l’edizione definitiva, riveduta dall’autore, è del 1960).
In un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Popolo di Torino il 25 maggio 1965, Comisso sintetizza che significato ebbe per lui la Grande guerra: «Dopo cinquanta anni, dopo mezzo secolo, ripensando alla Grande guerra ci si trova sempre sbalorditi, senza possibilità di spiegarci come mai la società europea, che strade, ferrovie e telegrafo avevano reso più compatta e comunicante, avesse potuto da un’ora all’altra precipitarsi armata tra le sue parti per sbranarsi come belve».
Giorni di guerra è la rievocazione autobiografica, in forma diaristica, dell’esperienza vissuta dall’autore al fronte. La guerra si presenta al giovane scrittore senza alone epico e come un’evasione dalla vita di provincia, un’insolita, rischiosa avventura. A conferire unicità alla sua ricostruzione letteraria è lo straordinario colore della lingua di Comisso, che mai come in queste pagine penetra i segreti della vita attraverso minute descrizioni. La realtà della sofferenza s’intreccia con il sentimento gioioso dell’ignoto («sorridevo all’avventura che d’immaginaria poteva farsi verace»).
Nel 1916 a Cormons è ciclista per la fureria. Poi caporale, e le sue missioni diventano pericolose, perché deve inoltrarsi fino al fronte austriaco per riaggiustare i collegamenti telefonici. Sono le pagine più belle di Comisso: «Il filo era stato spezzato in tantissimi punti dai tiri che avevano aperto sul terreno profondi imbuti ripieni di acqua. Decisi di stendere la linea a nuovo, ma non vi era da appenderla solo a qualche stocco di granone, vecchio e marcio, che ancora sussisteva nei campi abbandonati da tempo. Il sole brillava nitido e dagli osservatorii austriaci di Gorizia e del Carso ci dovevano vedere a occhio nudo contro il bianco della neve, per di più il telefono con le sue nichelature funzionava da richiamo…».
Nella primavera del 1917 frequenta a Udine un corso per allievi ufficiale e in estate raggiunge l’Alto Isonzo. Combatte a Caporetto e sul Grappa, dove è sottotenente. Rispetto ad Addio alle armi di Hemingway, in Comisso prevalgono raffinatezza e malinconia, piacere per la descrizione di luoghi che costituiranno per sempre il suo paesaggio letterario. Anche di fronte agli aspetti più drammatici del conflitto, Comisso rivela capacità di trasfigurazione che si trasforma in fuga nell’episodio della fucilazione di un disertore: «Non volevo vedere di più e mi precipitai dall’altra parte della collina, impastoiato nei passi, sul punto di cadere a ogni istante, sperando di arrivare in tempo per non sentire».
Dopo la guerra, dopo la laurea in Giurisprudenza, dopo l’amicizia con De Chirico e De Pisis, Comisso divenne un eccezionale autore di reportage. Prima la «Gazzetta del Popolo» lo invia nel Nord Africa e in Europa per due viaggi (pubblicati in Viaggi felici del 1949), poi, nel 1929, viene assunto dal «Corriere della Sera» che lo invia in Estremo Oriente: un mese in Giappone, due in Cina, venti articoli per mille e cinquecento lire a pezzo (confluiti in Amori d’Oriente ). Poi l’Africa e, tra varie controversie sulla «nota spese», la spedizione a Singapore con un piroscafo del Lloyd, toccando le Indie olandesi, Sumatra, Giava, Borneo, Celebes, Bali, Flores, Nuova Guinea, Isole Salomone, Samoa, Tahiti per sbarcare a Panama e passare a Cuba e Santo Domingo, sempre come in guerra, sempre a caccia di descrizioni avventurose, sempre versato alla rivelazione del carattere degli uomini.
Dal 1979, dieci anni dopo la morte dello scrittore veneto, l’Associazione Amici di Comisso, con sede a Treviso, lo ricorda con il Premio letterario a lui dedicato.