il Giornale, 28 maggio 2016
Ma di cosa stiamo parlando?
Ma di cosa stiamo parlando? In questo caso dell’impoverimento del linguaggio, dei tic retorici che sentiamo ogni giorno e che si trasformano in tic nervosi per chi li ascolta. Lo si osserva anche nei talk show, quando uno appunto sbotta con un: «Di costa stiamo parlando?». Ah, se non lo sapete voi. In realtà chi li dice vuole passare per intelligente, ponendosi fuori dal discorso, pur avendo contribuito al discorso fino a quel momento. Tipo si discute della riforma costituzionale e arriva sempre quello che sbotta: «Ma di cosa stiamo parlando?». La frase fatta farlocca si smaschera applicandola alla quotidianità. Immaginate un: «Hai buttato la pasta, amore?». «Ma di cosa stiamo parlando?». Due amanti a letto: «Ti è piaciuto? Sei venuta?». «Ma di cosa stiamo parlando?».
Come le frasi che iniziano con «Io non me ne intendo ma» e segue spiegazione di chi non se ne intende a chi invece se ne intende. Se non te ne intendi stai zitto. Così come «Non sono razzista, però» utile a sparare una sentenza sugli extracomunitari. Più onesto sarebbe: «Io sono razzista, fuori i negri!». Idem per chi è contro le unioni civili, «Non ho niente contro gli omosessuali, tuttavia». Più sincero e responsabile sarebbe: «Odio i froci!». Dove comunque: «Io ci sto mettendo la faccia» E cosa vorresti metterci, le tette? In molti casi, in effetti, sarebbe meglio.
E poi «gli italiani», un meraviglioso jolly semantico, usato ad libitum dai politici. «Gli italiani sono stufi!». Lo dice chiunque, da Salvini alla Meloni, da Marchini alla Raggi. Tutti parlano in nome degli italiani, perché dire «i miei elettori» smoscia il senso ecumenico del discorso. Per Matteo Renzi una pacchia, visto che nessuno l’ha ancora votato. Basterebbe imporre una tassa a ognuno che parla degli italiani. Oppure, meglio, munire le poltrone degli studi televisivi di un meccanismo che rifila un calcio nel culo a chiunque dica «gli italiani»: in televisione non vedremmo più un politico.
E poi a ogni «scusa se ti interrompo» parte immediatamente un monologo di tre minuti, a porlo come domanda non ci prova nessuno, perché se chiedessero «scusa, posso interromperti?» seguirebbe un «lasciami finire il discorso!». È come il «mi consenta» di Silvio, che ha fatto scuola, ormai chiunque a un certo punto se ne esce con un «mi consenta». Sembra gentile ma si deve consentire per forza. In realtà significa: «Stronzo, chiudi la bocca!».
Nei talk non politici, tipo Uomini e donne, mentre battibeccano c’è sempre un lui che dice alla lei: «Abbassa la cresta!». Modo di dire che discende dalle guerre tra i galli, forse però almeno lì sono consapevoli di essere in un pollaio.
Tanto prima o poi «c’è sempre una prima volta», ma davvero c’è sempre una prima volta? «Hai mai stuprato qualcuno?». «No, ma mi capiterà, perché c’è sempre una prima volta».
Altro tormentone quello delle opinioni che si rispettano: «Rispetto qualsiasi opinione, tuttavia». Che significa rispettare qualsiasi opinione? Si rispetta l’opinione di Adolf Hitler? Si rispetta l’opinione di chi entra al Bataclan e spara con un mitra a decine di persone convinto di andare in paradiso con settanta vergini? Siccome le opinioni si rispettano, hanno inventato perfino un mestiere ad hoc: l’opinionista. Cioè uno che non sa niente e parla di tutto. In ogni caso, di cosa stiamo parlando?