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 2016  maggio 28 Sabato calendario

A Hiroshima Obama ha abbracciato i superstiti dell’atomica

Le parole di Barack Obama e il silenzio immobile, denso di Hiroshima. Il presidente americano si presenta all’appuntamento con la storia pronunciando un discorso contro la guerra. Semplice: «Siamo qui nel centro di questa città e proviamo a ripercorrere il momento in cui la morte cadde dal cielo. Il grido silenzioso dei bambini, confusi da quello che vedevano». Profonda: «La rivoluzione scientifica che è arrivata fino alla scissione dell’atomo ora richiede anche una rivoluzione morale». Perché «quella memoria non dovrà mai svanire».
Alle 17.30 (le 10.30 in Italia) di ieri il lungo corteo di macchine blindate percorre veloce il viale che porta al Parco della Pace. Obama e il premier giapponese Shinzo Abe arrivano insieme. Sui marciapiedi qualche migliaio di persone aspetta da ore. La manifestazione di protesta si è quasi dissolta: i pacifisti contestano la politica di riarmo di Abe, ma curiosamente anche il primo presidente americano che si misura con il simbolo più potente del Paese. Il Cenotafio, il monumento a forma di cupola, è stato costruito esattamente nel punto dove cadde l’atomica il 6 agosto 1945: 140 mila morti più altri 60 mila a Nagasaki con il secondo ordigno, il 9 agosto.
Prima sorpresa: contrariamente alle previsioni Obama e Abe visitano il museo che custodisce ricordi tra i più sconvolgenti. Pochi minuti e i due leader si avviano a piedi verso il Memoriale. La polizia ha chiuso il parco, ma il mondo guarda attraverso le telecamere.
Solo il sibilo delle macchine fotografiche accompagna gli ultimi passi dei due uomini. Ecco, finalmente, le corone di cui si è parlato per settimane: sono intrecciate con crisantemi bianchi, il fiore che si offre ai defunti. Un segno di purezza, di semplicità, di sincerità.
Ora Obama va al microfono. Volge le spalle alla fiaccola ardente e, sullo sfondo, al Genbaku, la cupola lesionata, ma non distrutta dalla bomba. Di fronte al presidente solo sei file di sedie. I primi posti sono riservati agli ottuagenari Sunao Tsuboi e Shigeaki Mori, i rappresentanti delle associazioni degli «hibakusha», letteralmente «persone radioattive», i sopravvissuti alle radiazioni. Tra Hiroshima e Nagasaki sono circa 140 mila, con i volti spesso sfigurati, gli arti gravemente segnati. Obama alla fine andrà a salutarli e ad abbracciarli.
Il presidente legge un testo a metà tra l’orazione morale e la confessione intimistica. È venuto in Giappone inseguito da una domanda velenosa: si scuserà per l’ordine che il presidente Harry Truman diede ai bombardieri atomici? Obama discioglie le responsabilità dell’America assumendo un punto di vista universale: l’istinto del male, la guerra accompagnano l’essere umano da sempre. Ma a Hiroshima «l’umanità ha dimostrato che possiede i mezzi per autodistruggersi. Ecco perché siamo venuti qui. Le anime delle vittime ci parlano e ci chiedono di guardarci dentro». Le vite spezzate dall’atomica sono una parte di quei 60 milioni di morti nella Seconda guerra mondiale.
Gli Stati Unti, quindi, non si scusano non perché non abbiano colpe, ma perché ne hanno come gli altri. Persino «ogni grande religione non è stata risparmiata da credenti che hanno interpretato la loro fede come una licenza per uccidere».
Noi esseri umani, però, «possiamo imparare, possiamo scegliere, possiamo raccontare ai nostri bambini una storia diversa, che renda più difficile da accettare la crudeltà».
Obama fa rivivere i piccoli gesti di una famiglia, «il primo sorriso di un bambino la mattina» che sicuramente accompagnarono il risveglio dei giapponesi di Hiroshima, anche quel 6 agosto di settantuno anni fa. «Coloro che sono morti sono come noi».
Ora tocca ad Abe che, però, preferisce non togliere spazio al leader americano. Prima di andarsene Obama ha scritto sul libro degli ospiti: «Abbiamo conosciuto l’agonia della guerra. Troviamo ora il coraggio, insieme, di diffondere la pace e di batterci per un mondo senza armi nucleari».