La Stampa, 30 maggio 2016
L’uomo che ribalta il suo destino. Elogio di Nibali
Vincenzo Nibali pedala nella gloria sotto la pioggia monsonica di Torino. Di Cristiano Ronaldo, famosissimo e ricchissimo, è la terza vittoria in Champions, ma di Nibali Vincenzo da Messina, viso affilato come una discesa, dato da tutti per spacciato, è la grande impresa sportiva.
Sua è la gloria.
Per questo improbabile scalatore siciliano, primo della sua gente, si è mobilitato tutto l’armamentario retorico della glorificazione eroica. Dopo che nelle ultime due tappe del Giro d’Italia, in sole 48 ore, con due formidabili attacchi, ha ribaltato il destino di sconfitto che lo aveva spinto fin sull’orlo del ritiro, Nibali ha meritato il frasario dei campioni omerici – «completa il ciclo classico dell’eroe», «poema epico», «duello decisivo ad alta quota» – e quello riservato alla celebrazione cristologica («tormento, estasi, risurrezione»). D’accordo, benissimo, ma cos’è la gloria? Cosa la distingue dalla popolarità, cosa la esalta al di sopra della semplice vittoria? Cosa ne determina la supremazia rispetto al mero «successo»? In che cosa, insomma, «lo squalo» è superiore a CR7, all’idolo delle planetarie tribune calcistiche e delle globali ribalte pubblicitarie?
La gloria in Occidente ha due matrici, una nell’epica omerica, l’altra nella dossologia della liturgia cristiana. In entrambi i casi si tratta di quella specialissima forma di fama che indica l’approssimarsi di un confine, il confine dell’umano. Nella lingua di Omero a dire la gloria era il sostantivo «kleòs», derivato dal verbo «kluo» («ascoltare»). Indicava la «rinomanza», il perpetuarsi del nome dell’eroe che aveva compiuto grandi gesta oltre il tempo della sua vita e oltre il limite della sua morte, nella quale le gesta spesso culminavano (non a caso il kleòs si trasferiva di padre in figlio). In quella cultura guerriera, che aveva una concezione tenebrosa e terribile della sopravvivenza nell’aldilà, la gloria si coglieva nel punto in cui l’umano si approssima al proprio limite estremo rischiando eroicamente la vita nel combattimento letale, e spingendo in questo modo il confine oltre il punto assegnatogli dal ferreo, spietato, ordine cosmico. L’impresa gloriosa è, così, sempre simultaneamente un suggello sulla finitudine dell’uomo, una riconferma dell’ordine cosmico, e una ribellione ad esso. Il guerriero glorioso abbraccia il proprio destino di morte, scende nel suo buio senza redenzione, ma non prima di aver, anche per un solo istante, brillato. Splendido, memorabile, ammirato e amato.
Nel Cristianesimo, poi, con «gloria» s’indicheranno le manifestazioni della presenza di Dio nel creato e quel complesso di esclamazioni e acclamazioni liturgiche tese a riconoscerla e celebrarla. Anche qui, dunque, uno sporgersi sul limite dell’umano, questa volta, però, al confine tra umano e divino.
Che lo si sappia o no, questa tradizione rivive nelle nostre cerimonie acclamatorie della gloria sportiva. Campioni come Nibali, con i loro sacrifici, le sofferenze, gli strappi, gli ardimenti dolorosi, con le loro cadute e «risurrezioni», risplendono di gloria ai nostri occhi perché premono ai confini dell’umano e, così facendo, tracciano nella terra il limite invalicabile della nostra finitudine. Ogni volta che un Nibali, a duemila metri d’altezza, squassato dai dolori dell’acido lattico, scatta in fuga, a inseguirlo a ruota ha la morte. Il suo crisma è l’elevazione: questo raro genere di campione sorge, infatti, sul terreno dell’umano per elevarsi al di sopra di esso; un solo istante, salvo poi essere, come tutti noi, di nuovo atterrato.
L’altro genere di campione rimane invece tutto compreso nel cerchio angusto dell’«umano, troppo umano». Ronaldo ha, indubbiamente, uno straordinario talento ma per cogliere la vittoria può bastargli, in una serata opaca e fortunata, mettere a segno un calcio di rigore. L’unico scintillio di cui è capace, per quanto abbagliante, è luce mondana. Non è un caso che spesso la popolarità sia caduca, in gran parte immeritata (non nel caso di Ronaldo); che il «successo», specie di questi tempi, nello sport, nelle arti o in politica, sia solo il participio passato del verbo succedere.
Pur spogliata dai suoi attributi guerrieri, la gloria resta un ottimo antidoto ai veleni di una società intossicata dal culto del «successo». La gloria si vince giocando con tutt’altro mazzo di carte.