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 2016  maggio 27 Venerdì calendario

«I dieci o quindici che contano nel capitalismo italiano si stanno aggiustandole le cose loro, chiedono solo che il governo sia amichevole, e se capita lo applaudono e si fanno applaudire». Bersani attacca Renzi

C’è il referendum costituzionale a ottobre, ma adesso c’è l’economia che non va. Matteo Renzi dice che è tutto a posto: “Prima riporteremo l’economia ad avere un segno più davanti e poi otterremo un successo al referendum”. Pier Luigi Bersani è perplesso: “Gran parte della gente con quel segno più non ci campa. Consiglio di mostrarne consapevolezza. È impressionante che l’ossessione sia sempre quella di vincere, mai di risolvere”.
Risolvere che cosa?
Dal 2008 il Prodotto interno lordo è sotto di 200 miliardi. Mancano 6 milioni di posti di lavoro. Dubito che sia facile rimettere le cose a posto.
Ieri ha esordito il nuovo presidente degli industriali Vincenzo Boccia.
Nella sua relazione ci sono cose apprezzabili. Ci vorrebbe però, e non solo da parte di Confindustria, una presa d’atto più coraggiosa delle sfide che riguardano produzione e domanda: come attivare un robusto ciclo di investimenti pubblici e privati in innovazione e come ridurre la forbice sociale e territoriale. Sennò restiamo ai palliativi.
Il Jobs Act è un palliativo?
È una discussione inutile. Non avremo lavoro vero se non affrontiamo la questione degli investimenti. Oggi abbiamo meno contratti a tempo indeterminato che nel 2014. In compenso va forte il voucher, un mini-job all’italiana che accentua la precarizzazione del lavoro. Purtroppo in Italia piacciono norme che consentono comportamenti opportunistici.
Come la promessa di abolire Equitalia?
Le procedure di Equitalia vanno riviste, ma non possiamo dare l’idea dello sbaraccamento, suggerire che garantire allo Stato la riscossione sia qualcosa di repressivo.
Vince l’idea che solo gli imprenditori possono salvarci, se lasciati liberi.
Il Jobs Act ci ha dato l’amara conferma che il problema non era l’articolo 18. L’idea che ciò che fa bene all’impresa fa bene all’Italia è scivolosa. La Fiat non può dirci che cosa dobbiamo fare e pagare le tasse all’estero. Dia consigli dove paga le tasse. Vorrei vedere che cosa direbbe le cancelliera Merkel se la Mercedes pagasse le tasse all’estero.
Lorsignori hanno rinunciato alla funzione nazionale?
I dieci o quindici che contano nel capitalismo italiano si stanno aggiustandole le cose loro, chiedono solo che il governo sia amichevole, e se capita lo applaudono e si fanno applaudire. Poi hanno i giornali e c’è lo scambio, succedono cose che non sono potabili.
Ha vinto un “liberi tutti” chiamato flessibilità?
Flessibilità? Ce ne vorrebbe tanta. È che spesso sbagliamo la mira, per esempio nel cercare un rapporto, diciamo così, maschio con l’Europa. Il governatore della Bundesbank Jens Weidmann ha torto su tutto fuorché quando afferma che non possiamo dire all’Europa che i nostri bilanci ce li facciamo noi e poi chiedere mutualità sul debito pubblico. Fa bene il governo a battere i pugni sul tavolo a Bruxelles, ma anziché sulla flessibilità dei 2-3 miliardi di deficit dovevamo farlo sulle banche. Sul bail-in non era impensabile andare in infrazione ed era doveroso chiedere alla Merkel di lasciare più margini sulle sofferenze: in gioco non ci sono le banche ma il credito alle imprese.
Le banche dicono che sono le imprese a non chiedere più prestiti.
Fuori da ogni polemica, guardiamo in faccia la realtà. Abbiamo perso pezzi di industria. Da dieci anni siamo scesi sotto la media europea del prodotto interno lordo pro capite. La produttività non cresce. Si allarga la forbice dei redditi tra ricchi e poveri, nord e sud, vecchi e giovani. Cresciamo la metà dell’Europa. Le banche sono indotte a non mettersi a disposizione dell’industria ma a servire loro stesse, e a drenare il risparmio di cittadini che, fra l’altro, si sentono indifesi dalle prepotenze. Pare che serva la laurea in economia per entrare in banca. Il nostro sistema industriale non vede chiara la prospettiva, si indebita solo a breve termine, quindi non investe sul futuro. I consumi balbettano, la spesa alimentare si contrae.
Bel quadro. Vede un’alternativa al suicido di massa?
Certo. Decidiamo il ruolo futuro dell’Italia. Il made in Italy non può essere solo la moda o il cibo di qualità. È un saper fare in tutti i settori. Non possiamo certo rinunciare alla siderurgia o alla chimica o all’automotive e così via. Bisogna pensare a cosa fare in dieci anni, non in dieci mesi. Il governo chiami i sindacati, le imprese, le banche e proponga un patto per il lavoro e la produttività. Su tre punti. Sollecitazione di un robusto ciclo di investimenti pubblici e privati sulle nuove frontiere tecnologiche. Decentramento contrattuale su produttività e flessibilità nell’organizzazione aziendale, senza smontare le tutele dei contratti nazionali. Terzo: classificare i contenuti del welfare aziendale prima che si producano squilibri nell’intero sistema. A proposito di sanità, bisogna ritrovare la bussola sulle liberalizzazioni.
A lei care.
Molto care. Stanno aprendo al grande capitale un settore protetto come le farmacie, ma senza consentire a qualsiasi laureato in Farmacia di entrare nel mercato. È il contrario della liberalizzazione: è la costruzione di un oligopolio.