la Repubblica, 27 maggio 2016
Quegli orrendi calzini bianchi di Zidane
Il problema era imbarazzante per tutti, all’epoca. E risiedeva, chi l’avrebbe detto, proprio nei piedi di Zizou. Si trattava di quei calzini che indossava a riposo. Orrendi, inqualificabili: bianchi di un bianco candido, e già quello sarebbe stato da cartellino rosso, ma soprattutto corti, cortissimi, a mezza caviglia. Possibile che il nostro fantasista, il nostro fuoriclasse, fuori dal campo si vesta così? Non è possibile, concluse l’Assemblea. Dello scempio si incaricò di fare giustizia Ciro Ferrara, in qualità di arbiter elegantiarum: «Se ricordo bene – racconta oggi Angelo Di Livio – fu Ciro a risolvere la cosa. Glieli tagliò a pezzettini, quei calzini allucinanti, e appese i resti all’armadietto di Zidane. Doveva capire che in quel modo non poteva andare in giro, dai… Del resto quello era uno spogliatoio terribile, eh? Dovevi stare attento a cosa facevi, a cosa dicevi e pure a come ti vestivi: eravamo spietati».
Era lo spogliatoio della Juventus di Lippi, poi di Ancelotti, dal 1996 al 2001, quando Zinedine Zidane era il numero 21 (il 10 a Del Piero, per statuto), leader silenzioso, introverso. «Un giocatore straordinario – ancora Di Livio – con personalità da vendere e umiltà fuori dal comune: era un fuoriclasse con mentalità da gregario». Per Alessio Tacchinardi, Zidane è stato «il migliore con cui abbia giocato, ce l’avevo in asse, 15-20 metri di fronte a me e gli vedevo fare cose che ti facevano innamorare del calcio. Ho solo un enorme rammarico: aver perso due finali di Champions con lui in campo. Poi si riscattò con la Francia e col Real, però in quelle due finali con noi (Monaco 1997 e Amsterdam 1998, ndr) non entrò in partita, peccato».
Non parlava mai, Zizou: «Pacato, introverso. Lo dovevi stuzzicare per farlo reagire, e solo a quel punto era ben contento di scherzare con gli altri. Teneva tutto dentro, anche le tensioni prima di una partita: in apparenza era tranquillissimo», ricorda Di Livio. Per Tacchinardi «era un freddo e un timido a livelli giganteschi. Mi ha stupito che sia diventato allenatore, un mestiere in cui devi aprirti agli altri, però si vede che ha toccato le corde giuste dei giocatori. Perché lui, di fondo, è uno che una passione eccezionale per il gioco». Così appassionato, Zizou, da imbarcarsi in strane avventure notturne o preserali, ad allenamenti conclusi, nei parcheggi della città: solo anni dopo è emersa la storia di quelle partite giocate insieme a Davids e a Montero con gente sconosciuta, gente di strada, cui i tre assi davano manforte. Ancora Tacchinardi: «L’avesse saputo Moggi, li avrebbe impiccati… Ma questo ci fa capire quanto Zizou sia uno col calcio nell’anima, e al tempo stesso un uomo d’altri tempi, per nulla legato all’immagine, all’esteriorità. Giocasse oggi, non avrebbe profili Twitter o Instagram. È un uomo semplice, vive in famiglia e pensa al calcio tutto il tempo».
A Torino soffriva, Zidane, perché sua moglie non si trovava bene, e alla fine se ne andò anche per quello, lasciando solo un paio di amici, tra cui un certo Cristiano, oltre a Pablo Montero, l’unico dei compagni con cui ha mantenuto contatti. Per i vecchi sodali, trovarlo in finale di Champions non è così strano. Di Livio: «In quella squadra ce n’erano, di futuri grandi tecnici, e cito solo Paulo Sousa, Deschamps, Zidane… Ma ora deve vincere a Milano, altrimenti al Real potrebbero non perdonarglielo. Se trionfa, tanti dovranno ricredersi sul suo conto». Per Tacchinardi ha già fatto un grande lavoro: «Ha fatto di nuovo appassionare i giocatori al loro lavoro dopo Benitez. Ha motivato anche Ronaldo, che a pensarci bene, come indole e come atteggiamenti, è il suo opposto. Ma in comune hanno la passione per il calcio, cioè tutto».