Corriere della Sera, 27 maggio 2016
Su Maria De Filippi, l’imbattibile
Mentre seguivo la finale di Amici, vinta dal «gigante buono» Sergio Sylvestre, mi sono fatto incuriosire da un saggio di Alcide Pierantozzi, Amici, Maria De Filippi e l’aria del tempo, uscito su Link. Ho avuto attimi di smarrimento, una sorta di dissociazione: ma quello che vedevo sullo schermo era la stessa cosa che descriveva Pierantozzi? «La realtà è che, come in un romanzo di Murakami, l’indie e il mainstream non sono più scindibili: è inutile tentare di prendere una direzione rispetto a un’altra. Se esiste una nuova idea di qualità, è il condensato di ambedue le culture. E qui arriviamo al punto. Possibile che nessuno in Italia se ne sia accorto? Se n’è accorta, e in tempi non sospetti, Maria De Filippi». E ancora: «(Maria) ha lavorato da sempre, senza tentare di nobilitarli e con mano sicura, sulla commistione goliardica dei generi, dal musical al cantautorato, dalla danza alla recitazione teatrale, lasciando sconfinare i tempi televisivi e gli allestimenti scenici nel camp più manifesto. Film come La grande bellezza e Lo chiamavano Jeeg Robot sono figli legittimi del modo di fare televisione della De Filippi e del suo tentativo costante, forse naif, di riportare a galla le vecchie nicchie di mercato. Di standardizzare la qualità».
Murakami, indie, Lo chiamavano Jeeg Robot, standarizzare la qualità? Oddio, cosa mi sono perso? Nessuno discute le qualità professionali di Maria. Amici è un complesso e costosissimo carrozzone con una sua estetica arcobaleno molto coerente. La De Filippi ha un’oratoria controllata e ipersemplificata che parla agli istinti ed è imbattibile nel fiutare «l’aria del tempo», ma il suo invidiabile armamentario di pubbliche relazioni, la sua propensione al politicamente corretto (i balletti sui migranti!) dovrebbero essere buoni motivi per frenare l’invasamento di chi si vuole scrittore. Fanno a gara i nostri giovani intellettuali a voler capire più di quel che c’è da capire.