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 2016  maggio 27 Venerdì calendario

Il problema di Giachetti è quel look da profugo polacco anni ’80

Il problema non è la Raggi, è la giacca. C’è qualcosa di profondamente sbagliato non tanto nel programma, quanto nelle giacche di Roberto Giachetti. L’abbigliamento di Giachetti è cupo, destrutturato e stazzonato come la sua barba perennemente di tre giorni. È il vero discrimine antropologico che lo separa dal Campidoglio.
In molti sussurrano che Giachetti si giocherà le elezioni nel contrasto tra il suo eloquio forbito alla Giscard d’Estaing e il suo look da profugo polacco anni ’80. C’è un’immagine-simbolo del candidato sindaco del Pd accucciato su un gradino, davanti a una parete scrostata. Ha lo sguardo trasognato; sopra la camicia troppo larga la giacca, dalla cui tasca spuntano foglietti spiegazzati; e i jeans slavati; e le Clarks infangate uscite da mille comizi alla pioggia; e una cartellina aperta, zeppa di appunti e di pensieri; e una borsa sdrucita, abbandonata nell’angolo con tutta la tristezza d’una battaglia referendaria perduta. Roba da stringere il cuore. Roba che un viandante che non sapesse, si fermerebbe. E, preso dalla malinconia che solo i poeti di borgata e gli accattoni pasolinani sanno insufflare, impietosito, metterebbe la mano in tasca e porgerebbe a Giachetti un euro, sospirando: «Tenga buon uomo, si faccia un caffè. So che è poco ma, sa, c’è la crisi, e con questi politici che rubano...».
Eppure Giachetti potrebbe essere davvero il politico che non ruba. L’amministratore che conosce la macchina ingrippata del Campidoglio (è stato pur sempre capo della segreteria e di gabinetto di Rutelli, un sindaco molto pop) e che potrebbe rimetterla sulla retta via. Se non fosse per le giacche. Dio, le giacche. Dal suo entourage suggeriscono che Giachetti indossa le giacche come uno scialle perché i troppi e frequenti digiuni lo portano a sbalzi di peso e di taglia che rappresentano una scommessa per qualsiasi sarto voglia cimentarsi col suo incasinatissimo guardaroba. E ci può stare, per carità. Tra i soprannomi di Giachetti c’è «uno, digiuno, centomila»: la sua ascendenza radicale, tra astensioni dal cibo contro il Porcellum, per la nascita del Pd e per le primarie, lo portò a perdere fino a 18 chili. In quel momento, di prim’acchitto, ossuto, coi capelli scarmigliati, gli occhiali da studioso, la camiciola a righine rarefatte che mai conobbe cravatta; be’, in quel momento, più che dalla vicepresidenza della Camera (dalla quale arrivava) Giachetti diede l’idea d’essere appena sbarcato da un barcone giunto da un paese in guerra, alla ricerca di una società migliore. Ora, il sospetto è che il candidato sindaco su questa cosa un po’ ci marci.
Qualcuno azzarda che nella trasandatezza del suo look, vi sia la stessa strategia che Pier Carlo Padoan -anch’egli non esattamente un elegantone- attuò qualche settimana fa con la Commissione Europea. Padoan si presentò all’Europa degli statisti in grisaglia firmata con una cocciuta richiesta di flessibilità. Lo fece spettinato, caracollante con lo zainetto a tracolla, la giacca dai colori impossibili che facevano a pugni con i pantaloni – credo – di velluto, lunghi fin sotto le scarpe. Al confronto, Tsipras sembrava un modello di Pal Zileri. Junker, impietosito, mise la mano in tasca e gli porse un sconto di 14 miliardi sui tetti di bilancio. Probabilmente Giachetti usa la stessa strategia di realpolitik, solo che non lo fa da Strasburgo, ma dai mercati, dalle carceri, dagli angoli di una Roma accattona di suo. Possiede certo idee e prosa fluenti. Ma tra l’elettorato moderato al quale, neanche troppo segretamente mira, può tambureggiare la battuta: «’A Giachè, cambiate la giacchetta...».