Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2016
Le asimmetrie cinesi non fanno dormire Bruxelles
I ragazzi di Bruxelles, per una volta, non dormono. Le asimmetrie sono uno degli elementi di maggiore dinamicità nelle competizioni fra i sistemi industriali. Nessuno è nato con le fette di salame sugli occhi. Negli anni Sessanta e Settanta lo sviluppo economico italiano ha beneficiato di asimmetrie interne “permesse” – non importa se per inconsapevolezza lassista o per cinica progettualità – dai partiti politici della Prima Repubblica. Basti pensare alla rapida formazione delle basi produttive del Nord-Est e della Terza Italia: il passaggio da una società agricola e artigianale a una società pre-industriale e di industrializzazione a bassa intensità avvenne anche grazie alla competitività reale garantita dall’evasione fiscale e contributiva. La questione, però, cambia del tutto i suoi connotati quando le asimmetrie si rivolgono all’esterno, assumono dimensioni di scala gigantesche e soprattutto quando diventano carte – visibili o coperte, spiattellate o nascoste – sul tavolo della regolazione e del mercato. L’asimmetria cinese, che viene naturalmente assecondata per continuare nella massiccia accumulazione e nel progresso tecno-produttivo di quel sistema industriale, è basata su due fattori precisi: i bassi redditi dei lavoratori, alimentati dall’inurbamento delle popolazioni delle campagne che costituiscono un “esercito di riserva” in senso tecnico marxista, e il dumping ambientale, che almeno fino al 2015 – anno dell’annuncio da parte del segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping dell’introduzione di un sistema di controllo delle emissioni di CO2 – ha garantito molto più ossigeno competitivo – per quanto “malato e inquinato” – alle grandi imprese cinese. Pechino ha usato con sapienza e astuzia la politica dello stop and go. Ha tenuto altissimo il ritmo produttivo delle sue imprese siderurgiche per evitare di gestire chiusure e licenziamenti di massa che facessero riprecipitare nel sottoproletariato la sua nuova classe operaia. Lo ha fatto senza curarsi degli effetti sugli altri Paesi: ha accumulato una sovraccapacità produttiva in eccedenza rispetto alle esigenze del mercato pari a due volte e mezzo il totale della produzione reale europea. E, così, ha minato alle basi l’architettura di una siderurgia strategica per un Vecchio Continente a trazione tedesca che non può non dirsi manifatturiero. Lo ha fatto, appunto, in dumping. Allo stesso tempo, Pechino ha beneficiato della apertura dei mercati coincisa con l’ultima fase della globalizzazione. Il libero scambio assoluto non esiste. C’è soltanto nei desiderata dei ragazzi di Chicago e dei loro emuli. Esiste però un commercio meno gravato di impedimenti formali e di dazi. E, adesso, i ragazzi di Pechino sono convinti di avere le carte in regola per accedere allo status di economia di mercato. Per una volta – sarà che a rischio ci sono non solo ma soprattutto gli interessi della siderurgia tedesca – i ragazzi di Bruxelles non hanno dormito promettendo il gioco duro dei nuovi dazi a chi pratica il gioco duro da tempo.