la Repubblica, 26 maggio 2016
Ricordi di Panatta, l’ultimo a vincere: «Bisogna sapere accettare il bello come un mistero. Devo per forza trovare il segreto del mio 1976?»
È stato l’ultimo italiano a vincere. Tuffandosi sul rosso. Quaranta anni fa. Ma ora Panatta vuole essere lasciato in pace. Le memorie di Adriano non gli interessano. «Preferirei l’epitaffio». Ha scritto, ha ricordato, ha testimoniato. «Ma il passato è un’ancora che va tolta, altrimenti non salpi più». Però Parigi non dimentica quel Roland Garros del ’76, quel torneo vinto in quattro set da un italiano splendido e stremato.
«Magico direi, almeno per me. L’Italia invece era avvolta negli anni di piombo e nella nube di Seveso. A volte ti chiedono di spiegare cose, di dare causa e razionalità a eventi che sarebbe meglio lasciare fluttuare. Bisogna sapere accettare il bello come un mistero. Devo per forza trovare il segreto del mio 1976? Stavo bene, giocavo meglio, ero spensierato, pieno di salute. Sembra poco, ma è tutto. Non avevo pesantezze, anche se arrivai a Parigi un po’ stanco dal successo del Foro Italico, perché allora non c’era stacco di tempo. Al primo turno vinsi 12-10 al quinto contro il ceko Utka salvando un match point».
Veronica alta e volée in tuffo.
«Giocavo un tennis rischioso, azzardato, poco amletico. Mai avuto paura in campo. Dicevano che ero pigro, romano, indisciplinato. Forse ero solo curioso. C’era sempre un certo classismo nel giudicarmi: non ero laureato, non venivo dell’alta borghesia e allora? Leggevo il Castello di Kafka, nessun problema a dire che invece Memorie del sottosuolo di Dostoevskij non sono riuscito a finirlo. Uscivo con Loredana Bertè e Renato Zero, allora vestito come un marziano, a me la sua stranezza non imbarazzava, ad altri sì. La libertà mi è sempre piaciuta. Per questo ho lasciato fare al mio talento, senza mai usare conservanti».
Quel ’76 sembrò l’inizio di qualcosa.
«Sì. C’era voglia di scrollarsi gli anni cupi e di far vedere che lo sport poteva essere un protagonista importante, un’altra faccia del paese. Roma per me fu un successo sentimentale, casa mia, Parigi invece era il titolo prestigioso. In Italia si misero tutti a giocare a tennis. Un ragazzino minorenne, oggi uomo, Stanislao Liberatore, mi ha confessato che ruppe il salvadanaio, per prendere i vecchi gettoni del telefono, e con quelli scappò di casa in treno dall’Abruzzo per vedermi giocare la finale al Foro Italico dove impietosì un custode che lo fece entrare. Sulla mia scia sembrava ne dovessero arrivare altri, ma lo scivolo funzionò all’indietro. Invece di salire, siamo scesi. Mi rinfacciano che avrei potuto vincere di più. Ma ero già sposato e avevo un figlio. Di sicuro se mi fossi fatto gestire dall’Img avrei guadagnato di più, invece per liberarmi del loro controllo m’inventai che ero un nobile ricco e che volevo ritirarmi nel mio castello in Toscana. Ci cascarono. Non mi andava di essere comandato, né di pensare solo al tennis. E sì qualche sigaretta la fumavo. Mai avrei pensato di essere l’ultimo fuoco».
Era l’anti-Borg.
«Borg ha vinto sei volte a Parigi. L’unico che l’ha fatto inciampare due volte al Roland Garros sono stato io. Nel ’76 lo eliminai nei quarti. Potrei dire che sapevo decifrarlo, ma la verità è che io con lui avevo zero difficoltà, si adattava perfettamente al mio gioco, sapevo come fargli perdere il filo del suo infinito palleggio. Con l’americano Solly Solomon che incontrai in finale invece fui scortese. Eravamo negli spogliatoi, lo sovrastavo, e gli dissi: guardati allo specchio, sei bassotto, con me non c’è partita, dove vai?»
Solomon era piccolo, ma correva.
«Come un indemoniato. Era un flipper, rimandava tutto. E io prima della finale mi ritrovai senza scarpe. Le avevo lasciate nello spogliatoio ad asciugare perché erano di tela, ma Paolo Bertolucci se le era portate via per sbaglio. Così organizzammo una staffetta e Bartoni corse a Fiumicino a darne un paio ad un comandante dell’Italia che volava su Parigi. Quelle nuove arrivarono un attimo prima che entrassi in campo. I problemi li risolvevamo così, con un po’ di incoscienza, non avevamo la schiera di maggiordomi che i tennisti hanno oggi».
Però gli altri paesi vincono e l’Italia no.
«Il tennis è uno sport complicato. Comporta un enorme stress fisico e nervoso per i ragazzi. Ha bisogno di corpi resistenti. Parlo di energie anche mentali. Il campione non deve solo nascere, ma deve avere anche voglia di fare il campione. E magari al ragazzo che ha talento quella cosa lì non interessa. Borg è stato grande, ma ha ucciso il tennis, l’ha reso una maratona infernale. Gli allenatori poi come possono migliorarti? O sei stato un grande e conosci la materia oppure sei un mediocre e dai consigli insulsi. Io anche oggi quando butto l’occhio sui giocatori vedo tanti difetti da correggere, piccole cose, magari come mettono la mano. Ma devi essere stato Edberg o Becker per accorgertene».
Le ragazze italiane, Schiavone e Pennetta, però ce l’hanno fatta.
«Si. Ma ormai sono un fenomeno finito, in estinzione. Trovo anche inutile insistere perché Flavia vada a Rio. Lasciatela libera. Tra l’altro che potrebbe fare senza allenamento?».
E Mauresmo che allenava Murray?
«In quel ruolo non mi ha mai convinto. Non credo che una donna posso allenare un uomo, perché la morfologia del corpo maschile è diversa. Voglio essere chiaro: non c’è inferiorità culturale da parte della donna, c’è solo che nervi, muscoli, movimenti e gioco dell’uomo sono un’altra cosa».
Contento di premiare sul campo a Parigi?
«Sì. La riconoscenza di chi ama il tennis è il premio più bello. La Francia mi ha sempre voluto bene, quando giravo in macchina mi riconoscevano e si fermavano a salutarmi. A quel Roland Garros del ‘76 ho dato tutto. Alla fine ero esausto, non ce la facevo più. La mia stretta di mano a Solomon era aperta, larga, piatta. Non l’ho mai detto a nessuno, ma l’avevo copiata da Pancho Gonzales. L’avevo incontrato al Queen’s, avevo 17-18 anni, la partita era ferma per pioggia, sedemmo negli spogliatoi, si accese una sigaretta, mi passò il pacchetto: vuoi? Pensai: uno così quando lo batto? Ma l’attimo in cui ho vinto Parigi ho capito che ero diventato grande anch’io».