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 1916  gennaio 16 Domenica calendario

La Madonna di Mamà

Capitolo VI


(Leggi qui la puntata precedente)

La signora marchesa
Aquilino, appena varcato il Po, e si trovò in quella città, fu preso dal male che si chiama nostalgia, così che non solo non ammirò i monumenti della grande città; ma non gli piacque nemmeno il pane, perché gli parve di altro sapore; e tutte quelle case attaccate alle case, e tutta quella gente che vive fra le case, forse quella è una malattia.
Ma un giorno vide, con sorpresa, in uno specchio di vetrina, un ragazzo, con un abito blumarèn. Ed era lui! – Oh, che cera smarrita!... E in quel giorno vide che passavano tre turlulù con un sacco dietro le spalle, una magliaccia, certi passacci, tre nasi a trombetta, e sei occhiacci buttati qua e là.
– Chi sono quei disgraziati? – aveva domandato Aquilino.
– Quelli sono tedeschi – gli risposero – che calan con l’autunno: il primo dì han le toppe ai calzoni, il secondo han la camicia quasi pulita, il terzo dì sono essi i padroni.
Infatti coloro non avevano la cera smarrita.
– Non la voglio avere nemmeno io, – disse Aquilino; e andò in cerca del palazzo della marchesa.
Oh, il bel palazzo! Quale itinerario avesse seguito per le scale, corridoi, salotti, prima di arrivare dove la signora marchesa sarebbe venuta «a momenti», Aquilino non avrebbe potuto ricostruire. Un portinaio – personaggio che non usava al suo paese – lo aveva consegnato ad un marcantonio sbarbato, con un gilè rosso e un grembiulone verde: e stava sfregando così bene i pavimenti, che Aquilino sdrucciolò; e perciò quando si trovò solo in un gran salotto, si guardò bene dal muoversi per non sdrucciolare una seconda volta e cagionar malestri in quella specie di labirinto fra mobili, cristallerie, stoffe, bamboccini, quadri, libri. Invece di accomodarsi, come aveva detto quel marcantonio, si appressò a una vetrata e lì scoperse una cosa piacevole: qualche cosa come un giardino signorile, ma così ben pettinato che gli parevano di metallo le piante del giardino: e dietro quel verde, una specie di torrione. Poi gli parve che fossero già trascorsi molti di quei momenti, e si mise a guardare per indovinar da quale porta, da quale cortinaggio sarebbe apparsa la signora marchesa. E così girando gli occhi, s’accorse che nel salotto non era solo, ma c’era lì, sopra un cuscino di raso, una vaga bestia tutta arruffata; e dall’arruffio del lungo pelo veniva fuori un brutto muso spelato e due occhi sospettosi fissi sopra di lui: un gatto? un cane? o non piuttosto una scimmia?
Una voce, dietro le spalle, lo fece trasalire:
– Ah, buon giorno! – Era la signora marchesa.
Il cui aspetto rincorò Aquilino.
Non che egli credesse che la signora marchesa, perché marchesa, dovesse venire con la corona in testa – come le sue lettere – e il paggetto, dietro, che tien su la coda: ma per quella descrizione della marchesa col pennacchio in cima alla testa, si aspettava una dama di gran soggezione: e invece gli si affacciò una figurina carina, semplice, che scivolò con disinvoltura fra tutte quelle cose complicate.
Ella si sedette, fece sedere: e allora Aquilino ebbe davanti a sé la signora marchesa, cioè un visetto di un grazioso ovale, un po’pallido, incorniciato da gran capellatura nera: e due occhioni languidi. Ma quando, dopo le prime domande di cortesia, la signora prese un occhialetto d’oro e per qualche attimo perscrutò Aquilino, la prima sensazione del giovane si mutò, e lasciò il posto ad altra sensazione meno piacevole. Ed anche le parole che seguirono gli fecero uno strano effetto: erano saltellanti, dubitose, accompagnate da una smorfietta che voleva sembrare benevola; e con tanti Nevvero?, che ad Aquilino venne voglia di dire: Per mescusinon è vero niente affatto.
– Io non dubito – disse – delle sue brillanti qualità: il conte Cosimo, ottimo nostro amico, mi parlò di lei in modo del tutto rassicurante. Sì, mi aveva, effettivamente, detto che lei era giovane; ma adesso mi sembra che lei sia troppo, troppo giovane – e pronunciò questo troppo, troppo giovane che pareva voler dire: Io mi trovo imbarazzatissima.
Era impacciato anche lui, e seccato per quell’affare dell’occhialino che tornava a passare su la sua persona.
– Eh, signora marchesa – disse con gravità impressionante – vi sono certi anni nella vita che contano per due!
– Sì, capisco bene: ma specialmente è per Bobby. Non so come faremo con Bobby.
Certamente Bobby doveva essere il figliuolo della signora marchesa, benché a quel nome, gli occhi di Aquilino corsero su quella vaga bestia che stava sul cuscino.
– Già – fece la signora marchesa dubitosamente – e quel già voleva dire: «oh! c’è ancora dell’altro».
Ad Aquilino veniva un po’a meno il cuore, e forse lo si capiva dal volto.
La signora marchesa domandò di colpo risolutamente:
– Lei intende nel tempo stesso frequentare l’Università?
– Sì, signora marchesa. Così del resto eravamo intesi.
– Perfettamente. E quale facoltà?
– La facoltà di legge, signora marchesa.
– Me lo aspettavo! Non ci siamo spiegati bene, o forse io non mi sono spiegata. Comunque, è necessario intenderci. Nevvero?
Aquilino s’accorse di stare a bocca aperta.
– Le dirò dunque nettamente – proseguì la marchesa, – che è mia intenzione fare studiare Bobby in casa, almeno per tutto il ginnasio, per tante belle ragioni, che adesso non le sto a dire. Gli esami, però, badi! alle scuole pubbliche! Mi era stato, dunque, messo innanzi un precettore di età rispettabile e con ottimi precedenti...
– Signora marchesa – disse a questo punto Aquilino interrompendo, anche sapendo che non si deve interrompere. – Io sono qui! – e lo disse assai con intenzione. – Del resto lei prova me e lui. Si piglia un libro greco e latino, si apre a caso e poi si vede. Per le matematiche non oso dir tanto…
La marchesa sorride:
– Non si tratta di questo. Apprezzo, senza prova, il suo latino e greco. Avevo un impegno con lei, ed ho rifiutato quel precettore. Però non le nascondo che mi è stato più difficile rifiutare le offerte, un po’insistenti, che mi ha fatto il senatore X***, di un suo studente di second’anno di filologia. Nessuna prevenzione in proposito: ma non le nascondo che il professore, il senatore X***– Non conosce il senatore X***?
E la domanda fu tale che rispondere di non conoscere, almeno di nome, il celebre senatore X*** era come dichiarare di venire dal mondo dell’Ignoranza.
– Lei mi capisce! – riprese la marchesa. – Se lei si inscrive nella facoltà filologica, io posso giustificare meglio il mio rifiuto al senatore. E poi, schiettamente; la casa è frequentata da gente di studi. Ora lei non essendo professore, e nemmeno avviato per questa carriera, mi pare che ci esponiamo alla critica. Nevvero? Se lei invece è inscritto in filologia, noi siamo allora in perfetto protocollo, ed evitiamo la critica... Personalmente poi le dirò che mi piace molto la sua pronuncia, e questo è già un titolo!... Bobby, in fondo, è italiano...
Aquilino rimase un po’lì dubitoso. Studiare i poeti per i poeti, ed i savi per la saviezza, sì, gli piaceva; ma per fare poi nella vita la carriera del professore, non ci aveva pensato. Che cosa avrebbe detto mamà? Per lei il maestro di scuola è sempre quello che conduce a casa, urlando, i monelli.
Aquilino capì che il gentile mi pare della signora voleva dire: son certa: e quel fare dubitoso non era che una smorfia elegante.
Smorfiette inzuccherate; ma soltanto alla superfice. O prendere o lasciare! Ebbene avrebbe fatto il volere della marchesa, per il protocollo di lei; e per il protocollo della sua vita futura, cosa molto seria! avrebbe studiato legge.
– Accetta la signora marchesa?
La marchesa fece un gesto che voleva dire: Gli interessi della sua vita non mi riguardano, faccia lei…
– Già, per la facoltà di legge – aggiunse a quel gesto – basta la pura iscrizione.
Dopo di che la marchesa, con una sicurezza stupefacente, entrò nel tema così delicato degli obblighi di lui e di lei: dare ed avere.
– E centocinquanta lire mensili. Le va?
Quando Aquilino sentì il suono di quella cifra favolosa, balzò! «Milleottocento lire all’anno, spesato di tutto! La casetta di mamà la si poteva avere per duemila lire, l’orto per mille! Ma io ti studio anche veterinaria! Altro che filologia!».
– E allora le presento Bobby, nevvero?
E la marchesa suonò da certi tastini d’avorio che aveva sottomano; e, non so, forse perché prima era apparso quel marcantonio rosso, e la marchesa squillò Bobby, Bobby!, che l’apparso Bobby parve un lillipuziano. Un cosino quasi trasparente, d’improvviso, era scivolato sul tappeto, finché giunto davanti ad Aquilino, si irrigidì, stese la mano, lui, il minuscolo, a lui! Pareva un pupo, vestito così alla marinara, coi calzoni lunghi a campana. Ma dove l’aveva veduto quel cosino altre volte? Eppure l’aveva veduto! Ma sì! In quelle stampe antiche dove c’è un pupino vestito così: il figlio di Napoleone, quello che morì etico. Si vede che la moda torna su!
Ma questo robino qui, cosi tristanzuolo, mi campa come un passerotto da nido, pensò Aquilino – e allora addio le mie centocinquanta lire! Disse poi: – Deve essere intelligentissimo!
Bobby era immoto.
– Ah sì, anche troppo. Proverà! —disse la signora marchesa sorridendo.
– Forse un po’gracilino – aggiunse lui con molta meditazione.
Ahi, ahi! Un tasto falso, dopo tanta meditazione.
– Bobby è sanissimo – disse la marchesa. – E da quando ho avuto la fortuna di affidarlo a miss Edith, non ha fatto più il benché minimo raffreddore.
– Gli occhi di questo caro bambino – disse Aquilino cercando di rimediare – sono così belli e profondi! Sembrano quasi melanconici…
Aquilino aveva toccato altro tasto falso.
– Melanconico Bobby? – disse la marchesa. – Ah, rigolo, rigolo.
Aquilino non sapeva che cosa volesse dir rigolo, ma certo una cosa contraria di melanconico. Per Dio! Stava così grave quel pupo, che avrebbe ingannato ognuno: il quale pupo ad un cenno della marchesa, tornò a porgere la mano; riscivolò, scomparve.
– Io vorrei – disse poi la marchesa quando Bobby fu scomparso – che lo studio del latino non lo distogliesse troppo dalle altre molte occupazioni. Nei ginnasi pubblici li brutalizzano addirittura col latino.
Per Dio! Aquilino era uno, esperto della montagna del latino e avrebbe trasportato coi metodi più semplici e per belle giravolte, il suo allievo sino al verso eroico, qui cupit optatam cursu contìngere metam, multa talit fecitque puer.
Ma qui la signora marchesa si entusiasmò poco. L’importante per lei era passare ai primi esami. Raggiungere le alte vette, cosa secondaria! Un grimpeur può, per giuoco, varcare le cime dell’optatam metam: Bobby bastava che passasse sotto il tunnel, alla maniera moderna.
Ed Aquilino s’accorse che aveva commessa un’altra stonatura: le quali erano già tre, e nel linguaggio della signora marchesa si chiamavano gaffes.
– E quel rollino lì che io non saprò mettere a posto? – diceva tra sé Aquilino quando il marcantonio del cameriere lo lasciò solo nella stanza che gli era stata assegnata. – Ma io ti mangio in insalata!
Gli dava quasi più soggezione quella stanza chiara: chiari i mobili; chiaro, di metallo, anche il letto. Oh, una bella stanza! E quella specie di sistema nervoso e vascolare che aveva? Fili per la luce, fili per i suoni, tubi per il caldo, tubi per l’acqua! Però una bella stanza, e che buoni materassi, e cento cinquanta lire il mese!
Ma quella valigia di tela così gonfia, con quella corda in croce, che il cameriere gli posò senza dir nulla, come era vergognosa in quella magnificenza tutta bianca!
Povera mamà!

Capitolo VII

Bobby
Appena Aquilino fu immesso nella possessione di Bobby, s’accorse che era lui, invece, in possessione di Bobby. Quel minuscolo essere vestito da omino, sotto il pretesto che la signora marchesa gli aveva detto di far vedere la casa al suo professore, lo prese subito per la mano e lo condusse nella nursery a visitare le sue bestie feroci: c’era un leone, un cammello, un orso bianco, quasi al naturale, pelosi; e infine l’uomo selvaggio! Erano su due file, fra scaffali di altri balocchi.
Aquilino ebbe il torto di rimanere un po’a bocca aperta.
– Vengono tutte dalla Germania queste belve feroci – disse Bobby.
Ad un tratto gli sgusciò di mano, saltò come un diavoletto sul cammello; da questo sul leone; li fece andare sulle rotelle e poi botte da orbo su tutte le bestie.
– La prego, signorino, di cessare da quel feroce esercizio.
Ma Bobby fissò appena per un attimo il suo pedagogo, e per tutta risposta iniziò un assalto contro l’uomo selvaggio; e calci e pugni anche a lui.
– Ma non va bene, signor Bobby, picchiare quell’infelice pupo – disse Aquilino appena cessò l’assalto contro l’uomo selvaggio.
– È Cettivaio, re dei Zulù. E poi io non picchio: faccio ginnastica.
– Ma se anche è Cettivaio e zulù, è sempre un uomo. La pietà è una nobile virtù dell’uomo.
– Ah no! signor professore: è la virtù delle pecore.
Aquilino, alle nuove parole, contemplò Bobby come sant’Agostino riguardò il fanciullo che gli apparve miracolosamente su la riva del mare a spiegargli il mistero della Trinità.
– Scusi, da chi ha imparato a dire così?
– Miss Edith dice così.
Ed ecco il leone cominciò a ruggire, l’orso ad aprire le fauci, il cammello idem, e dondolare il collo, mandando un lamento spaventoso.
– Smetta, smetta, signorino…
Bobby gongolava dalla gioia.
– Ah, non possono smettere finché non hanno finito la carica. Ha paura?
Non fu atterrito il buon Fabrizio alla vista dell’elefante del re Pirro, non poteva essere atterrito Aquilino al ruggito delle bestie finte: ma ebbe paura che in quel punto capitasse la marchesa e domandasse: È questo l’eteroclito principio delle sue lezioni?
Dalle bestie, Bobby passò nel garage.
Quivi erano due automobili di maestà diversa, ma di uguale lucidezza. Aquilino ebbe il torto di manifestare alcuna tenue curiosità, sì che Bobby iniziò subito una lezione di automobilismo.
– Signor professore – disse Bobby dopo un po’, con un fare insinuante – lei deve indovinare quale è il mio ideale.
– La avverto che io non sono qui per spiegare indovinelli...
– Sia gentile anche lei! Lei non sarà gentile con me? Il professore che avevo prima era tanto gentile... Allora glielo dico io quale è il mio ideale: quando sarò grande, voglio fare il viaggio in automobile dal Cairo a Capetown.
– Impossibile!
– Dal Cairo a Capetown è tutto dominio inglese, e perciò è possibile.
– Ma chi lo dice?
– Miss Edith! E non farò una panne…
– Dica panna in italiano.
– Ma la panna si mette nel thè!
La parola panna eccitò il riso di Bobby.
– Lei ride troppo! – ammonì Aquilino.
– Io sono rigolo, rigolo, rigolo, come dice mamà; e poi i bebi non devono essere melanconici.
Era inutile domandare di chi era questa sentenza: certo di miss Edith.
– Dica bimbi!
Bebi è più bello!
Gli faceva lui da pedagogo, ed era seccato.
– Senta, invece che a vedere dei balocchi, mi conduca nella sua stanza da studio.
– È al terzo piano. Prendiamo il lift.
Ma Aquilino, quando si trovò davanti all’ascensore, pensò a tante disgrazie, e volle salire per le scale.
– Ha paura del lift?
– Io non ho mai paura! ma le gambe son fatte per qualche cosa.
Passando per il salotto, c’era ancora quel bestiolo sdraiato sui cuscini. Aquilino si guardò bene dal chiedere che bestia fosse; ma non poté a meno di esclamare: – Che brutta bestia!
– Brutta? Ah, professore, uno dei cani più belli, più rari, più preziosi!
La stanzetta da studio di Bobby era semplice; ma una lindura, un profumo, una luce che destò l’ammirazione del giovane. Però un so che di esòtico, di troppo ordinato gli destò come un senso di freddo.
E quanti bei libri! ma tutti dorati ed eguali.
– Professore – disse Bobby togliendo una scatoletta di metallo da una mensola —posso offrire? Una violetta! Sono viole candite.
– Non mangio le viole!
Un goccettino di chartreuse…
– Non bevo liquori.
– Ma è un rosolio!
– Non bevo rosoli.
– Oh!
– Ma questi sono tutti libri francesi, inglesi! – disse con stupore Aquilino. – Non è lei italiano?
– Si, ma l’italiano lo so! Conosce questo bel libro. Alice in Wonderland? Guardi che splendore di illustrazioni! Adesso le racconto la storia di Water-babies, il bimbo inglese mutato in pesciolino… Come? non la interessa?
Tutte quelle cose inglesi, belle, producevano ad Aquilino un certo non so che, come se volessero dire: «Tu, Aquilino, sei brutto!»
– Io invece, le devo raccontare ben altra storia – disse con gravità magistrale: – la storia del pesciolino che deve diventar uomo!
– Ah sì, racconti.
E gli si accoccolò vicino, posandogli la manina su le ginocchia.
– La mano, giù! – disse Aquilino.
Bobby meravigliato, ritirò la manina.
– È una storia divertente?
Aquilino lo ammonì che occorrevano anni molti e molta fatica per mutare il pesciolino in uomo.
– Allora è meglio restar pesciolino.
A vedere quel cosino diafano, con quei due occhioni, veniva da accarezzarlo.
Poco dopo Bobby spargeva ai quattro venti che il nuovo professore aveva paura del lift; aveva chiamato brutta la più bella delle bestie; era il protettore di Cettivaio; diceva che l’automobile fa la panna.
Fu la stessa marchesa che ne informò Aquilino.
– Noi stessi dobbiamo stare in guardia, davanti a Bobby. E terribile!
– Ma lei, caro Robertino, dice tutto!
– Ah sì, io vedo tutto, e dico tutto.
Subito dopo, altra strabiliante notizia: il professore gli aveva mutato il nome: lui adesso si chiamava Robertino e niente Bobby.
– Ma lei mi spiffera tutto! – rimproverò Aquilino.
– Non dire mai bugie e lavarsi! Ecco la vera educazione – disse Bobby.
Aquilino rimase lì, stupito davanti a quell’assioma. Voleva domandare di chi era. Certo di miss Kdith.
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