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 1916  gennaio 16 Domenica calendario

L’abbandono dell’impresa dei Dardanelli

L’impresa dei Dardanelli ha avuto la sua più logica soluzione. Dopo un anno di dura lotta sopra un teatro di operazione angusto, irto di difficoltà naturali, facile alla difesa, gli anglo-francesi hanno abbandonata la penisola di Gallipoli. Molto sangue è rimasto nelle aride zolle. La via di Costantinopoli ha visto cadere alla sua estremità, là dove la lambisce il mare, cinquantamila uomini.
Cinquantamila eroi. Australiani, neo-zelandesi e coloniali francesi si sono battuti tutti con valore senza pari ed è peccato che queste pagine di eroismo siano state scritte troppo lontano da noi, spesso tra l’indifferenza e la diffidenza. La prima era giustificabile ove non si fosse compresa la portata che un successo degli alleati avrebbe potuto avere; la seconda era superflua dopo che i due attacchi più importanti alle posizioni turche non avevano avuto alcun successo.
L’impresa dei Dardanelli è fallita – riducendo a una sola causa il complesso delle cause che l’hanno condannata – perché si è fatto in due tempi quello che andava fatto in un tempo solo. Questo concetto può essere anche azzardato: oggi non ci è noto se l’Ammiragliato britannico sia stato costretto, per ragioni speciali, a suddividere questa azione che doveva invece avere per base un piano organico, completo, da essere attuato in una volta sola; ma dalle dichiarazioni di Churchill, del novembre scorso, e dal rapporto del generale Hamilton, di qualche giorno addietro, è facile dedurre che l’indecisione abbia spesso sostituito la rapidità che sarebbe stata indispensabile nel concepire e nell’attuare.
Di tutte le operazioni di guerra escogitate nel corso di questo conflitto al quale ormai assistiamo da un anno e mezzo, il forzamento dei Dardanelli sarebbe stata l’unica a dare risultati concreti immediati. Colpire al cuore: questo vuole la guerra, e la comparsa delle navi degli alleati davanti a Costantinopoli avrebbe infatti significato un colpo al cuore per la Turchia, un colpo non meno mortale per l’intero blocco austro-turco-tedesco. Il canale fra il Mediterraneo e il Mar Nero, fra gli alleati occidentali e la Russia, avrebbe staccato l’Impero ottomano da quel lembo d’Europa a cui s’aggrappa da secoli e avrebbe segnato un limite insorpassabile per le ambizioni tedesche verso l’Oriente.
Questo avevano intuito gli alleati, questo compresero i turchi dopo il 3 novembre 1914, quando la squadra dell’ammiraglio Carden si presentò davanti ai forti che sbarravano l’imboccatura degli Stretti e li ridusse al silenzio. Fu un meraviglioso duello di cannoni. Le opere turche uscirono dalla lotta smantellate, e i marinai britannici poterono scendere tranquillamente a terra a far saltare con la dinamite gli spalti delle mute fortezze. I flemmatici «bluejackets» se ne andarono dopo a spasso per la penisola di Gallipoli e raggiunsero indisturbati quelle posizioni che i soldati del sultano, due mesi dopo, dovevano difendere con tanto successo. Le vetrine londinesi, ancor oggi, ospitano delle belle istantanee di questa prima fortunata fase della spedizione.
Lo sbarco delle truppe anglo-francesi avrebbe dovuto avvenire subito dopo che i forti erano stati ridotti al silenzio. Altri forti più potenti, è vero, sbarravano gli Stretti verso l’interno, ma da un’azione fulminea, di sorpresa, si sarebbe potuto sperare assai più di quanto circa un anno di lotta non abbia dato. Come nella guerra terrestre, cosi è nella guerra marittima: come la fanteria avanza all’assalto delle posizioni nemiche quando queste sono state sgominate dal fuoco dell’artiglieria, così la distruzione di batterie terrestri da parte di navi da guerra può riuscire efficace solo se il risultato conseguito venga consolidato con la conquista della posizione rimasta indifesa.
La storia di tutte le guerre ci insegna un assioma che può sembrare un assurdo: una piazzaforte marittima può esser presa soltanto da terra. Lo si è visto nella guerra di Crimea, prima che i francesi portassero nel Mar Nero le prime corazzate che mai fossero state costruite al mondo, lo si è visto durante la guerra ispano-americana e durante la guerra russo-giapponese; Port Arthur non cadde certo per i bombardamenti compiuti dalla flotta nipponica e – volendo ricordare un altro esempio che per noi italiani è assai più noto – è concorde l’opinione che se l’ammiraglio Persano, nel luglio del ’66, dopo il primo bombardamento dei forti di Lissa avesse compiuto uno sbarco, l’isola sarebbe stata nostra e l’infausta giornata del 21 luglio probabilmente non si sarebbe avuta.
L’attacco del 3 novembre 1914 non ad altro servì che a mettere in guardia i turchi e chi, vegliando per essi, pensava a salvare i propri piani: i tedeschi. Agli uomini della Wilhelmstrasse, a Berlino, il significato della minaccia degli alleati non poteva sfuggire. La difesa dei Dardanelli fu affidata a un ammiraglio tedesco – l’ammiraglio von Usedom che ebbe per capo di stato maggiore il capitano di vascello von Janson – e quando, nel febbraio del 1915, la flotta franco-inglese ritornò all’ingresso degli Stretti, il comando britannico non tardò ad accorgersi che le cose erano radicalmente mutate.
Le truppe del corpo di spedizione sbarcarono a viva forza, sotto il fuoco dell’artiglieria nemica, sopra una striscia di terreno materialmente insufficiente alle loro mosse. Alle spalle, a non molta distanza, rimase il mare. Davanti, trincee. II carattere dell’impresa era ormai mutato. Si tentò nell’agosto scorso un’azione magnifica che mirava a stendere dalla baia di Suvla a Maidos, dall’Egeo ai Dardanelli, una catena di truppe alleate, tagliando in due l’esercito turco, ma la mossa non riuscì.
La ritirata da Suvla, il 21 dicembre scorso, e da Capo Helles, il 9 corrente, erano due avvenimenti prevedibili. La guerra di trincee condanna all’immobilità su fronti estesi come quelli in Russia ed in Francia: come poteva essere possibile la manovra nella penisola di Gallipoli, dove su linee di pochi chilometri di estensione i difensori potevano concentrare ogni loro risorsa?