L’Illustrazione Italiana, 16 gennaio 1916
Il taccuino perduto
Di questo taccuino, veramente raro e prezioso, abbiamo già parlato. Ma nell’ultimo fascicolo di Minerva, l’autorevole rivista di Roma, c’è in proposito un articolo così grazioso e giusto, che ci piace riprodurlo e siamo certo piacerà anche ai nostri lettori:
Il titolo preciso sarebbe: I. d. F. in cima, e sotto: Il Taccuino, ecc. trovato e pubblicato da Moisè Cecconi (Milano, Treves, L. 3.50). La breve prefazione spiega come il sig. I. d. F., che scrisse man mano il taccuino e poi lo dimenticò (apposta, forse) nello scompartimento di un direttissimo Bologna-Milano, autorizzasse l’A., che lo rinvenne, a pubblicarlo con le sole iniziali, scrivendogli una letterina simpatica, nella quale gli annunziava altresì la sua partenza, «per l’ultima liberazione». Siccome era da poco scoppiata la guerra europea, è a credere che sia andato a morire in Francia. Amen!
Non sono mai stato gran lettore di romanzi e da tempo non ne leggevo più, ché l’età dei romanzi m’è passata ed ora poi basta a me, come ai più, credo, la tragedia immane che viviamo un po’tutti. Ho aperto questo (se pure è un romanzo) di mala voglia, e non mi fece né caldo né freddo la giustificazione che il Cecconi tenta, nella detta prefazione, della sua «nota dissonante nel grave concerto» attuale
…. che introna
l’anime sì ch’esser vorrebber sorde.
Ma dopo aver spilluzzicato qua e là, son rimasto anch’io sedotto, come Elena e Leda, le due eroine del romanzo; e ho dovuto prenderlo alla prima pagina e arrivare sino alla fine.
La quale, voglio dirlo subito, non mi piace punto, perché finisce male, e questo mi dispiace sempre. Come critico dirò che è precipitata, strozzata, monca, oscura (o son io che non so vederci). Meno male se lui, l’eroe del taccuino, è finito gloriosamente in Francia. Ma quella buona Elena perché farla morire così? E dell’altra, di Leda, che n’è? È troppo interessante per piantarla così.
Si tratta di un giovanotto parecchio sfaccendato, a quanto pare, pieno di ingegno certamente, più che di cuore, dilettante in amori vari e in analisi introspettive egoistiche, il quale si confonde fra due ragazze, anzi, signorine sorelle, belle tutt’e due, l’una molto buona, bionda, l’altra molto femmina, bruna: caso non infrequente. Il giovane ama la più buona, o crede; preferisce, per le carezze, la più femmina, l’ama forse – e la buona, che ama lui veramente, ne muore (o d’altro male). Il taccuino rappresenta questa confusione con molto garbo e finezza, bilicandosi a meraviglia sul taglio del rasoio.
Io per me dico che quel giovanotto è assai più innamorato del suo pensiero arguto e del suo scrivere bello che non delle due sorelle. Questo ho pensato sopratutto leggendo la parte ultima, quella della catastrofe.
Non è un filosofo o uno scienziato il nostro giovanotto, come sarebbe nel Disciple del Bourget: pur filosofeggia indulgentemente la sua buona parte; e scrive molto, molto bene, toscano, senza affettazione, ameno, bizzarro talvolta, senza stravaganza, talun’altra profondo, senza parere: verista e decente, signorile, amabile sempre: un seduttore, l’ho già detto.
Eccelle nelle descrizioni di paese, di ambiente, di vita, che rivelano lo scrittore padrone dei proprii mezzi; sovrabbonda spesso, come per esempio in quella, felicissima, del viaggio in diligenza postale e del cocchiere allegro e petulante. Ma, insomma, è uno che sa dir bene tutto quello che vede o intravede o non vede, osservando molto di dentro e di fuori. Per esempio, non vede, pur guardandosi tanto dentro, che è un solenne egoista e persino un po’salutista; ma ben lo vede il lettore. Meno male, ripeto che, dopo aver fatto morire, va a morire fuori del suo taccuino, in Francia. Qualche saggio:
«In giardino, seduto in disparte, leggendo il mio giornale. Osservo ogni tanto le mie sorelle e le loro amiche che conversano. Sono in piedi, raccolte in gruppo. Parlano di abiti, di abbigliamenti, di mode. Le loro mani, con gesti delicati, lievi, sfioranti, seguono dei contorni, disegnano delle guarnizioni, dei risvolti, accennano delle crespe, ammazzettano delle pieghe, creano dei pizzi immaginari che dispongono con un tremolìo delle loro dita sottili intorno al collo, sul seno; e ora fanno atto di chiudersi ad anello intorno alla vita, si slargano verso il basso della gonna, si riuniscono per tracciare lateralmente qualcosa che risale sul fianco… Come sono intente, assorte tutte in quel gioco! Vedo che io non esisto più per loro, che esse non pensano più a me. Le loro dita parlano, raccontano. In certi momenti pare che tocchino delle corde di uno strumento. Ed esse rimangano estatiche a guardarsi, sorridenti e pensose, come in ascolto di una musica deliziosa, angelica, celestiale».
Vero, non è vero?, e carino il quadretto, pur con un zinzino di caricatura. Parlando di donne, chi è che non carichi un po’o in un senso o in un altro? Figurarsi il nostro civettone, beato fra le donne, anzi fra le vergini – che non son «delle rocce» – e quasi sempre solo fra esse: tant’è, appena un altro uomo gli vien d’accanto, come lo guarda male! Ma ecco una osservazione più seria. sempre sulle donne, tema unico:
«Ho più volte notato che lo spettacolo della morte attira le donne assai più degli uomini. Fino da bambine esse accorrono a contemplare i cadaveri distesi nelle bare e rimangono a fissarli lungamente con occhi indagatori, mentre i piccoli maschi della loro età si saziano ben presto di quella infinita tristezza e ritornano a i loro giochi e battaglie.
«Perché? Quale è la ragione di questo strano fascino che la morte esercita così per tempo sulle donne? Vogliono forse veder da vicino con i loro occhi e scrutar bene, a fondo, faccia a faccia, la loro implacabile nemica? Esse che danno, non come noi, ma con amore e con tanto lungo affanno la vita, vanno forse a conoscere quella eterna ed inesorabile disfacitrice dell’opera loro? Vanno forse, anche, a sfidarla?
«Certo è che quando esse escono da tali funebri spettacoli non hanno quasi mai nei loro volti lo sbigottimento degli uomini, ma una certa non so quale sicurezza di se stesse, e come una strana luce negli occhi che si direbbe quasi un sorriso.
«Pare che esse dicano: Hai voglia, cara, di falciare! Siamo qua, noi! – Ho riveduto oggi questa luce negli occhi delle mie sorelle, di Elena, di Leda».
Vera anche questa osservazione, come sopra, e profonda.
C’è un po’di tutto, in questo Taccuino, ed anche del superfluo. Oltre alla parte interessante e, direi, coerente, ossia al romanzo, v’han pensieri staccati che non hanno o pare non abbiano nulla a vederci. Vi sono divagazioni, enumerazioni, lungaggini. Per taccuino, sta tutto bene: ma via, alcune cose poteva, almeno chi lo pubblicò, lasciarle fuori.
«L’istinto degli uccelli di andare contro vento, l’istinto dei pesci di risalire la corrente dei fiumi, e l’istinto dei ragazzi di far sempre contro la volontà dei maggiori, mi pare che possano avere la medesima spiegazione. Probabilmente, se cosi non facessero, gli uccelli ed i pesci fluviali sarebbero trasportati negli oceani, ed i ragazzi andrebbero a finire nel mare morto della stupidità».
Questo è un pensiero forte e originale.
Eccone un altro schopenhaueriano:
«Cortesia, gentilezza, urbanità…
«Svelti, sottili, dorati parafulmini sul tetto della nostra pace».
Per finire, un prezioso consiglio:
«Mantenetevi sempre sotto pressione, pronti ogni momento a partire, pronti anche ad esplodere, ma sopratutto, pronti ad amare!».
Oh si! Ma, ben inteso, quando s’ha in macchina il carbone della gioventù, come l’A. che io non conosco altrimenti che da questo Taccuino, il quale sa tutto di gioventù e d’ingegno.