MilanoFinanza, 21 maggio 2016
Il debito di Roma, un macigno che pesa sulla campagna elettorale (e che nessuno è in grado di spostare)
Virginia Raggi (M5S): «Vogliamo ristrutturare il debito di Roma, che è principalmente finanziario e nei confronti delle banche». Roberto Giachetti (Pd): «Dobbiamo rimettere in sesto il bilancio ordinario di Roma per poi aprire una vertenza con il Governo per rinegoziare i mutui presi in passato dal Comune e che gravano sul debito». Alfio Marchini (Civica e Forza Italia) si tiene lontano dal tema, ma punta forte sul taglio delle tasse, a cominciare dall’addizionale comunale, che è la più alta in Italia anche per effetto dei 200 milioni che ogni anno devono andare alla gestione commissariale del debito capitolino (valgono lo 0,4% in più sull’Irpef dei romani) e che assieme agli altri 300 milioni in carico allo Stato sono la pietra angolare su cui si regge l’intero piano di risanamento del debito di Roma, stimato nel 2010 in 22,4 miliardi, diventati ora 13,3 (di cui 10,2 miliardi di debiti finanziari).
Per la verità c’è anche un’altra ipotesi che è girata durante la campagna elettorale: il saldo anticipato dei vecchi mutui ancora in essere attraverso un’anticipazione del Tesoro di 9 miliardi, rimborsabili senza interesse in 30 anni. Ma chi l’ha fatta non deve mai aver avuto a che fare con la normativa sulle anticipazioni di cassa del Tesoro. In ogni caso, sia il taglio delle tasse sia la ristrutturazione del debito sembrano essere solo trovate elettorali, argomenti di propaganda che hanno ben poche se non nessuna possibilità di essere realizzati.
Almeno questa è la convinzione dell’ex commissario straordinario del governo al debito della Capitale, Massimo Varazzani, l’uomo chiamato nel 2010 a gestire quella grana infinita e che in cinque anni ha ridotto di 9 miliardi la montagna di passività. «Qui tutti vogliono dimenticare che i vecchi mutui prevedono pesanti penali in caso di estinzione anticipata e difficilmente gli amministratori di Cassa Depositi e Prestiti (a cui fa capo gran parte di quei contratti, ndr) potrebbero rinunciare a quelle penali perché altrimenti rischierebbero di incorrere nel danno erariale. Ma non è l’unico ostacolo. La Cdp per legge deve praticare le stesse condizioni a tutte le amministrazioni pubbliche, quindi se dovesse applicare una riduzione dei tassi in essere al Comune di Roma, dovrebbe farlo anche agli altri Comuni che hanno mutui analoghi, mettendo a rischio il suo conto economico, con effetti a cascata anche sul risparmio postale che è il canale di finanziamento della Cassa stessa. E comunque dovrebbe essere autorizzata a farlo dal governo. Ultima avvertenza: bisogna sempre ricordare che quei mutui sono assistiti da delegazione di pagamento, il che significa che, se non viene pagata la rata, Cdp (o la banca) si prende i soldi direttamente dal conto di tesoreria comunale. In ogni caso, nella storia del debito romano ci sono state altre rinegoziazioni che non sono certo da citare ad esempio».
Varazzani si riferisce al prestito obbligazionario di tipo bullet, denominato City of Rome, da 1,4 miliardi che sarebbe dovuto scadere nel novembre 2033. A inizio 2008 il Comune rinegoziò il contratto per abbassare il tasso delle cedole annuali dal 5,375% al 5,345%, con un risparmio annuo di 420 mila euro fino al 2033, per una minore spesa complessiva di 10,2 milioni. Peccato che l’allungamento della scadenza, spostata al gennaio 2048, costerà di interessi altri 1,1 miliardi. Non solo; quel titolo Boc era stato affiancato da quattro contratti derivati, stipulati con Ubs, Dexia Crediop, Jp Morgan e Barclays, per avere i soldi per saldare il conto alla fine del percorso attraverso un accantonamento in un sinking fund. Grazie a una norma del decreto Milleproroghe del dicembre 2010 Varazzani è riuscito a derogare al vincolo di accantonamento e a chiudere i derivati. Una scelta ora contestata da Silvia Scozzese, che da settembre 2015 guida la gestione commissariale dopo essere stata assessore al Bilancio durante l’ultima fase della giunta Marino.
«Sbaglia lei», replica Varazzani. «È meglio saldare il capitale tutto insieme tra quasi quarant’anni, perché per effetto della svalutazione l’onere reale sarà meno pesante, ma in ogni caso quei derivati andavano chiusi. Erano una spesa fissa da finanziare a debito e servivano soprattutto a far speculare quelle banche straniere sul trading di titoli di Stato esteri. Insomma, facevano utili con una provvista che rappresentava una parte del debito pubblico italiano. Doveva sentire come strillavano a New York quando ho detto loro che non avrei sentito ragioni. Purtroppo non abbiamo potuto poi anche estinguere il prestito. In quel caso ricompralo, anche se solo in parte, sarebbe stato un gran vantaggio, perché ai tassi del 2011 era quotato sotto la pari e ci avrebbe fatto risparmiare 2,7 miliardi di interessi a finire, più la quota capitale, ma i detentori dei titoli si sono rifiutati di negoziare perché avevano stipulato swap di copertura con costi di chiusura per loro insostenibili».
Ma la questione del prestito bullet non è l’unica che divide Varazzani da chi ha preso il suo posto. Scozzese infatti pensa che sarebbe meglio chiudere la gestione commissariale riportando all’interno del Comune quella bad bank che paga i conti arretrati dell’amministrazione cittadina, ma dipende dal governo. L’obiettivo sarebbe quello di avere più flessibilità di gestione e maggiori spazi di bilancio. Per Varazzani però sarebbe una scelta pericolosissima, perché portare in Campidoglio i circa 6 miliardi di disponibilità finanziarie (fra cassa e linee di credito già concesse alla gestione commissariale) potrebbe scatenare appetiti irresistibili. «Mi chiedo che cosa farebbe Scozzese davanti a richieste, sottoscritte da lei stessa quando era assessore, di iscrivere a debito commissariale partite importanti, come gli oneri aggiuntivi del lodo arbitrale su Malagrotta. E come si comporterebbe riguardo i crediti di competenza commissariale che il Comune non vuole mollare? Complessivamente ci sono in ballo 100 milioni».
La gestione commissariale ha in cassa o può attivare ancora una somma considerevole. Appena arrivato, Varazzani decise di farsi scontare subito da Bnl, Intesa e Unicredit le prime tre annualità di contributo, ottenendo 1,47 miliardi sugli 1,5 dovuti (il tasso annuo pagato è stato quindi inferiore all’1%). Contestualmente si fece scontare anche parte del contributo annuale (180 milioni su 500) previsto per i 27 anni residui, ottenendo nel triennio 2011-2013 altri 3 miliardi. In totale quindi 4,5 miliardi, che, assieme all’incasso di una parte dei crediti della gestione commissariale, hanno reso possibile effettuare pagamenti cash per 5,6 miliardi, di cui 2,6 per debiti finanziari e 3 per debiti non finanziari (in totale furono oltre 30 mila i mandati di pagamento). Questa operazione è stata replicata nel 2014, mettendo a gara per 24 anni i residui 320 milioni del contributo pubblico. La gara è stata vinta dalla Cassa Depositi e Prestiti. Grazie a questa operazione ci sono ora a disposizione 5,4 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti 900 milioni per l’erogazione diretta dei residui contributi 2014-2016, che, uniti alle giacenze, portano la disponibilità della gestione a circa 7 miliardi. Ma, secondo l’esperienza di Varazzani, potrebbero arrivare nei prossimi anni quasi a 9 miliardi tramite l’incasso di altri crediti, ulteriori risparmi da transazione e lo sconto delle annualità 2041-2046 (ma servirebbe un decreto del Mef). Una cifra purtroppo non sufficiente a completare l’intero percorso di rientro. Con 1 miliardo di incasso di altri crediti rimarrebbero ancora da trovare 3,3 miliardi entro il 2048.
Che fare, quindi? L’idea di fondo di Varazzani, più volte rappresentata nelle relazioni al governo e al Parlamento, è che lo Stato si accolli anche formalmente i vecchi mutui per la quota capitale di 5,7 miliardi, ricevendo subito in cambio dalla gestione commissariale disponibilità liquide per un importo analogo, da rierogare a rate secondo i piani di ammortamento fino al gennaio 2048, data alla quale dovrà essere rimborsato il famoso prestito bullet di 1,4 miliardi. Per il Tesoro l’effetto sul debito, fino al saldo dell’ultimo prestito, sarebbe praticamente nullo, visto che le regole di contabilità di Stato permettono di conteggiare anno per anno gli interessi dei mutui, mentre il commissario straordinario è costretto a conteggiare come debito l’intera massa degli «interessi a finire» (4,5 miliardi). Praticato questo swap dei mutui, al commissario resterebbe una disponibilità di 3,3 miliardi per chiudere le ultime transazioni e pagare i debiti commerciali residui e in tre anni la gestione potrebbe essere finalmente chiusa. Andrà così? «A leggere le cronache della campagna elettorale mi sembra difficile; quel che è certo è che, rebus sic stantibus, i 200 milioni annui di addizionali romane non si possono eliminare, a meno che non se li accolli lo Stato con una legge apposita. Ma, vista la fatica fatta per far approvare l’ultimo decreto Salva-Roma, bocciato per due volte di seguito solo due anni fa, la vedo un’ipotesi improbabile».