La Stampa, 21 maggio 2016
La passione di Giuseppe Penone per gli alberi. Una bella mostra al Mart di Rovereto
Spettacolare. Davvero straordinariamente spettacolare, la grande mostra sinfonica, che Giuseppe Penone ha orchestrato nelle vertiginose sale del Mart, con la complicità del nuovo direttore Gianfranco Maraniello. Sale riportate ad una purezza originale, che hanno richiamato dopo molto tempo, in loco, anche l’architetto-creatore, Mario Botta, che si dice entusiasta: «Un modo molto intelligente di valorizzare il mio spazio, che ormai mostro nelle diapositive, arricchito dal magnifico albero sospeso di Penone».
Via pareti, cubicoli, anfratti, solo le opere magnifiche e sontuose dell’artista piemontese, che si rispondono luminose, come le trombe d’un responsorio dei Gabrieli. Spettacolare: spettacolarmente spettacolare. Usiamo questa formula, per far capire, che cosa significa, per la retorica classica, il termine, un po’ intimidente, ribadito, di «Anafora». Che Penone ha regalato all’altra sua contemporanea occasione espositiva: alla Reggia di Venaria. «Sì, quasi un ribadire visivo. Qui avevo già lavorato nel 2007, con forme inusuali di piccoli giardini o boschetti, che riflettevano l’architettura della Reggia, dando sempre però la preminenza agli elementi naturali: l’acqua, il verde, la luce. E magari ribaltando la visione, così regolare e geometrica, del parco alla francese». Un qualcosa, questo dialogo natura/scultura, che aveva già avuto inizio con l’albero gigantesco di Versailles, abbattuto dal fulmine. Alchemicamente metamorfosato in scultura di bronzo. «Sì, il bronzo che si rapporta al verde. In effetti sono molto più vicino alla formula inglese di giardino, che non alla francese, lasciando invadere la simmetria di quei parchi ben curati, settecenteschi, dall’elemento selvaggio della natura, che erompe, magari mostrando anche gli alberi caduti, posati in orizzontale, dialoganti. Lì avevo a disposizione un bosquet, che ho occupato con questo albero sradicato, con i suoi lunghi rami che toccavano terra: alla loro estremità ho piantato cinque alberi, che crescendo, nel tempo, creano un nuovo boschetto, con un ordine libero, che ha la logica del vegetale e non dell’uomo. Che costruisce razionalmente i parchi».
Anche per il nuovo progetto di Venaria, ha osservato, poeticamente: «I passi mi inoltrano nello spazio... ogni nuovo passo modifica il suolo... comprimendo la terra avverto la natura del contatto». Ora dice: «Però mi sembrava difficile aggiungere qualcosa al lavoro che avevo già fatto nel 2007. Poi l’architetto Regis della Reggia mi ha spiegato che stavano restaurando le grotte barocche intervallate nel muro, che s’affaccia proprio sul mio precedente Giardino delle Sculture fluide. E mi è sembrata ideale, quella soluzione ritmica, spaziata, di usufruire di “stanze” naturali, ritagliate nei mattoni, per inserire alcune mie opere storiche. Con una continuità più di materiali, che non di aspetto formale». Come una sorta di quadriglia visiva, di avant e ’ndré tra le vecchie e nuove installazioni, perché questo significa tra l’altro la parola «anafora». «Penso che questo dialogo, con queste sette opere, proprio come le sette lettere di “anafora”, sia più un gioco tra chi guarda e si crea delle nuove corrispondenze personali, che non un mio calcolo». Sempre alberi, comunque: come quello recente, che è sceso con un elicottero, nella Villa Greystone di Pinault, su un picco a pochi passi dai luoghi dello sbarco in Normandia o quello a Dhahran, in Arabia. Alto trenta metri. Quasi una sigla, l’albero. Una firma di «natura». L’albero come «fabbrica del bosco»: arte viva, generazione spontanea, talvolta impedita o teneramente «aggredita» dall’invasione curiosa, sperimentale, della mano umana. «La natura è così, e per questo mi attrae, come quando un fiume trova un masso e modifica, reinventa il proprio percorso. Vista da di fuori può parere un’effrazione, un’imposizione bronzea. Ma l’albero no, avvolge, ingloba, metabolizza. Anche quel gesto diventa natura». Una strana posizione concettuale, che però poi materializza l’invisibile e dà forma al respiro, che pure è immateriale. «Però è presentissimo nella nostra vita, accompagna la nostra esistenza, sino alla morte. E poi respiro è anche il fiato che esce dalla nostra bocca, quando fa freddo. Ha una sua visibilità, che io restituisco in scultura».
Al Mart si vede anche una bellissima opera inedita, un piccolo busto, tra Gemito e Medardo Rosso, del figlio Ruggero, posata su un vecchio cavalletto da scultore. Con intorno dei petali come esplosi di bronzo, espulsi, che reiterano astrattamente le forme accarezzate, affettuose, del volto bambino. Come mai inedita? «Erano gli Anni 80, a bloccarmi non c’era soltanto il tabù, infranto, di un busto figurativo, ed il rapporto intimo, mimetico, con mio figlio, e pure il cavalletto, da vecchio scultore. E già che allora si parlava di un ritorno alla figuratività, con la Transavanguardia, non volevo si creassero ambiguità. Tutto nasceva dall’idea che la scultura è un adattarsi della mano alle forme delle cose. Ho posato la mia mano sulla sua fronte e ho cercato di trasferire quelle forme nella creta. Che poi si riverberano in bronzo nello spazio. Sì, forse come in un’esplosione cosmica». In un big bang. «In fondo quest’idea dell’orma si ripete sin da milioni di anni, sin dai graffiti rupestri. E se tu vuoi bere alla fonte, che fai? Poni le mani come scolpendo una scodella. Ma poi, anche Dio, quando ci ha creati, non ha avuto bisogno della creta?».