la Repubblica, 21 maggio 2016
La fortuna non basta. Consigli da Roberto Bolle
«Non basta avere un sogno, bisogna essere fortemente determinati per raggiungerlo e saper lottare, fare sacrifici», dice serenamente uno dei più grandi artisti del balletto italiano e internazionale, l’étoile della Scala e del Metropolitan, l’idolo di migliaia di fan maschi e femmine, giovani e non.
Il “mito” Roberto Bolle per tutti è legato a due aspetti: bravura e bellezza, tecnica e un fisico pazzesco. Invece va ascoltato mentre racconta i ricordi dalla sua fatale adolescenza, di quando a 11 anni diventa l’allievo della scuola di Ballo del Teatro alla Scala, iniziando così una dura crescita, una faticosa gavetta e un autentico romanzo di formazione. Una storia, impensabile in tempi di talent, commovente e strana, degna di Dickens, dove c’entrano solitudine, lavoro, lacrime, sogni, studio, training interiore, allenamenti e la scoperta di una “stanza tutta per sé”, il luogo segreto che “Robertino”, come lo chiamavano, si era trovato dentro la magica Scala.
«Credo che nessuno sia stato tanto in questo teatro come me – sorride oggi nel “suo” camerino, al quarto piano, semplice, disadorno, con lunghe finestre sui tetti e un lettino dove riposarsi prima degli spettacoli –. Per anni qui in Scala avevo tutto il mio mondo e all’inizio mi pareva il mondo di un altro pianeta». Roberto Bolle, allievo dell’Accademia di Danza di Vercelli, arriva alla Scala nell’86, iscritto direttamente al secondo corso di Ballo. «I miei compagni dunque avevano già un anno insieme alle spalle e legami d’amicizia già fatti. Io arrivavo dal nido famigliare e all’improvviso mi ritrovavo solo, in un’altra città, senza famiglia, in casa di un’anziana signora che mi affittava una stanza, e in una scuola in mezzo a gente che non conoscevo. Il primo anno la sera chiamavo con il telefono a gettoni a casa piangendo di nostalgia. Non voglio sembrare lacrimevole, melodrammatico, perché la danza era la mia passione, sapevo il privilegio che avevo di essere stato scelto tra centinaia nella scuola più importante d’Italia e mai avrei rinunciato. È che ero solo. Sono sempre stato un bambino piuttosto appartato, non direi introverso, ma solitario, non mi piaceva mettermi al centro dell’attenzione e dunque stavo in disparte. E la solitudine non mi ha mai fatto paura. Ma in quel momento avevo troppe novità tutte assieme. La Scala da subito divenne dunque per me il rifugio, la casa, il luogo “mio” che giravo da solo, dove restavo fino a tardi e dove a un certo punto ho trovato un mio spazio, un locale dove non andava mai nessuno che è diventata “la stanza tutta per me” dove potermi chiudere, pensare, fantasticare e, più avanti, riposarmi e fare training autogeno». Come in un romanzo d’appendice, il teatro più celebre del mondo diventa per un piccolo bambino “il suo angolo fuori dal mondo”. «Succedeva così: arrivavo la mattina per le lezioni: salti, giri, lavori per imparare l’elevazione, la resistenza, la potenza, la velocità, l’equilibrio, l’elasticità. Poi alle sei quando anche le assistenti andavano a casa, invece di andarmene io restavo. Gironzolavo per le stanze, alle sei e mezza apriva la mensa serale e andavo a mangiare. Io, coi vigili del fuoco, i tecnici, le sarte... Le prime volte, sì, mi sentivo un po’ strano: essere a scuola e non c’era nessuno. Ma mi piaceva. Qualche sera mi intrufolavo anche a vedere gli spettacoli dal loggione. E in uno di questi giri che avevo scoperto una stanzetta dove non so perché non andava mai nessuno. C’era un letto e veniva usata per metterci mobili che non servivano e documenti da archiviare. Io l’ho vissuta come il mio rifugio».
La “stanza” era il momento di isolamento, per ricaricare le energie, isolarsi e ritrovarsi dopo la pressione costante della scuola dove sei sempre giudicato, spinto a dare il massi- mo. «A me bastava stare lì a leggere, pensare, ogni tanto mettevo la sveglia e dormivo per 15 minuti. Più in là negli anni la usavo per fare training autogeno. Soprattutto dal sesto, settimo, ottavo corso quando con il liceo serale rischiavo l’esaurimento. Le lezioni iniziavano alle 8.30, quindi voleva dire svegliarsi alle 7, finivamo e subito alle 18,30 iniziava il liceo, fino alle 23. Non ce l’avrei mai potuta fare senza quella stanzetta dove facevo un training di rilassamento profondo per togliere la pesantezza del corpo. Altre volte rivedevo mentalmente quello che dovevo ballare: importantissimo, perché visualizzare i passi della scena è una vera tecnica. È una pratica che seguo ancora oggi, in giro per il mondo, fosse anche in una stanza d’albergo, magari anche in chiesa. Prendere consapevolezza di sé, è essenziale, ti migliora anche da un punto di vista fisico. La bravura di un ballerino sta nella mente, non nel corpo. Se non c’è una mente lucida, combini poco, rischi di essere inconstante nelle prestazioni. Da bambino lo facevo in modo istintivo, nel mio isolamento, mentre da grande con un approccio più scientifico al lavoro sul corpo, mutuandolo dal mondo dello sport, perché nella danza praticamente non esiste, per il pregiudizio che ci si deve concentrare solo sulla crescita artistica. Diciamo che negli ultimi anni qualcosa si è mosso e il Royal Ballet adesso è la compagnia con le migliori strutture al mondo: sala pilates e girotonica, palestra con preparatori atletici, nutrizionista, agopuntore... Sono avanti rispetto alla realtà italiana dove ancora non hanno capito o non vogliono capire l’importanza di tutto ciò. Figuriamoci quando ero ragazzo io. Io sin dai tempi della scuola mi sono interessato da solo a studi che mi aiutassero a sviluppare questo rapporto stretto tra mente e corpo: yoga, tecniche PNL (programmazione neuro linguistica, ndr), reiki, scienze alimentari. Un corpo allenato, alimentato, conosciuto e controllato nel modo giusto non è un fine, ma uno strumento per interpretare al meglio l’arte».
Oggi che Roberto Bolle è uno splendido quarantenne, celebrità mondiale, Principal Dancer dell’American Ballett Theatre, unico ballerino italiano ad avere ricoperto finora questo prestigioso ruolo contemporaneamente a quello di étoile della Scala, sempre in giro per il mondo (il 23 maggio è al Met di New York, il 26 e il 27 al Teatro Regio di Parma con il suo “Gala Roberto Bolle and Friends” che il 13 luglio porta per la prima volta in piazza Duomo a Spoleto, il 15-16 al Carlo Felice di Genova, il 18 all’Arena di Verona, il 21 e 22 a La Versiliana di Marina di Pietrasanta, il 25 e 26 a Caracalla) di quel bambino determinato di un tempo ha molto orgoglio: «Se quel passaggio della mia vita fosse stato più comodo non avrei avuto questa disciplina e determinazione che poi mi sono serviti per affrontare le difficoltà, perché diventare primo ballerino a 21 anni, a 22 esibirmi a Londra nel
Lago dei cigni davanti alla famiglia reale e l’anno dopo in Romeo e Giulietta, fu un esordio importantissimo. Certo, mi capitò, perché il primo cast si era infortunato. Segno che le cose hanno un destino, ma il destino ti mette di fronte alle prove, poi sei tu che devi essere pronto e saperle superare».