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 2016  maggio 21 Sabato calendario

Quanti tweet e post luttuosi hai letto o scritto negli ultimi cinque mesi?

La mattanza del 2016 ha finora lasciato qualche sporadica settimana di tregua ma non accenna certo a finire. Non è difficile immaginare un italiano di mezza età che nella vita abbia adorato i film di Ettore Scola e l’arte di Paolo Poli; si sia formato sui libri di Umberto Eco e di Ida Magli; abbia applaudito a concerti di David Bowie, Keith Emerson, di Gianmaria Testa e Prince; abbia tifato per le squadre di Cesare Maldini; si sia entusiasmato per le prodezze calcistiche di Johan Cruijff; si sia incuriosito dell’eccentrica figura di Gianroberto Casaleggio; abbia seguito i blog e gli articoli di Emiliano Liuzzi e saltuariamente votato per Marco Pannella... Quanti tweet e post luttuosi avrà letto o scritto, nel solo arco degli ultimi cinque mesi? Assieme alle vistose crisi dell’Europa e dell’Occidente e agli affanni delle istituzioni democratiche, per come le abbiamo finora conosciute; assieme al declino delle agenzie culturali più tradizionali, come l’editoria giornalistica e libraria; assieme alle preoccupazioni per l’andamento globale dell’economia e dell’ecologia e per le frequenti minacce che arrivano da alcuni Altrove apparentemente insondabili, questa scia di morti pubbliche (accompagnata dall’ombra cupa della denatalità) lascia un’impressione forse superstiziosa ma non del tutto infondata: l’impressione che un mondo, se non proprio Il Mondo, stia per giungere a un suo termine. Seguendo la lezione di T.S. Eliot, non lo fa con il fragore di un’esplosione ma con i sospiri ripetuti a singhiozzo di questa catena luttuosa. Prima di scomparire, anche lui pressoché prematuramente, Jacques Derrida lo aveva detto, quando ha raccolto i propri epicedi (testi scritti in occasioni funebri) e ha intitolato il libro
Ogni volta unica, la fine del mondo (Jaca Book): «La morte dell’altro, non soltanto ma soprattutto se lo si ama, non annuncia un’assenza, una scomparsa, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di ogni mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica, dunque insostituibile, dunque infinita».
Nei social network si è già fatta abbastanza ironia su certi riflessi che scattano automaticamente, certi format da necrologio del tipo «Ora insegna agli angeli come...», nonché sull’ovvio accorrere delle prefiche attorno a ogni nuovo catafalco, per enunciare la propria frequentazione e la prossimità al defunto, a volte inventandosele di sana pianta. Le rockstar superstiti aprono i concerti con cover di Heroes o Purple Rain e, nell’altro senso di «cover», gli illustratori di riviste come il New Yorker si ingegnano a rappresentare il compianto nelle forme più simbolicamente pregnanti. Il discorso collettivo del lutto si dispiega così come mai in passato, alternando formule stantie e figure innovative.
Ma perché ne muoiono così tanti? Guardando le date di nascita e le cause dei decessi si può solo constatare che la vecchia signora armata di falce continua a svolgere il suo compito, servendosi volta per volta di malattie, fatalità o del semplice deterioramento fisico, la buona e vecchia vecchiaia.
Nel romanzo di Edoardo Albinati
La scuola cattolica si ricorda e attribuisce a Heinrich Böll la previsione, tra il cinico e l’arguto, che negli anni Ottanta dello scorso secolo in Germania i costruttori di monumenti funebri sarebbero andati in crisi: la falcidie della Seconda guerra mondiale aveva spopolato con grande anticipo la generazione che sarebbe stata destinata a invecchiare e scomparire in quel periodo. Oggi invece sembrerebbe avvenire il contrario. È solo un’impressione?
Quello che è successo, in realtà, è che dagli anni Ottanta la quantità di persone famose è aumentata vertiginosamente. Senza andare a consultare gli archivi si può tranquillamente scommettere che le scomparse di Rino Gaetano, di René Clair, di Georges Brassens e di Jacques Lacan (tutte avvenute nel 1981) non siano state celebrate con l’enfasi collettiva e generale che caratterizza la necrologia odierna. Ognuna di quelle fu una perdita gravissima per i rispettivi settori di pertinenza, ma nessuno di loro era davvero famoso per chiunque. In quell’anno persino la scomparsa di Bob Marley (che forse era il personaggio più in voga) venne trattata dai mass-media generalisti come un lutto per gli appassionati di reggae; per il resto del pubblico fu una specie di notizia di costume e fu trattata di conseguenza. Oggi invece la platea delle persone famose è estesa quasi quanto la platea di chi, se non le ammira, le conosce almeno superficialmente. La formula già stereotipica «Scompare con lui...» non viene quasi più impiegata, perché non c’è più bisogno di spiegare cosa il defunto abbia rappresentato: in modo più o meno vago lo sanno tutti. Questo accade perché non c’è una celebrità la cui fama non abbia travalicato i limiti settoriali della propria specialità. Ne abbiamo conosciuto gli amori, le opinioni politiche, i diversi look, le dichiarazioni a effetto, le trasgressioni e le indignazioni. Le rockstar sono state fotografate in udienza papale, i politici hanno frequentato i palchi dei varietà, gli sportivi sono stati raffigurati seminudi in calendari, attori e attrici hanno prestato l’immagine a campagne per qualsiasi tipo di prodotto e/o per qualsiasi tipo di comunicazione sociale o umanitaria...
È casomai possibile osservare una differenza: la scomparsa in età relativamente avanzata dà un effetto di «Nessuno come lui...» che invece è molto sfumato per gli altri. Chi si è affermato negli anni Sessanta e Settanta è visto retrospettivamente come un pioniere. Per fare solo un caso, Umberto Eco non è solo diventato famoso: ha anche inventato il modo in cui diventarlo, perché nessun pensatore prima di lui aveva fatto l’autore televisivo, l’editor, lo scrittore di satira, il critico e l’analista di fumetti, canzoni pop e romanzi di James Bond.
Dagli anni Ottanta in poi, la comunicazione massmediale ha invece assestato i suoi format ed è diventata una fabbrica di celebrità. Non è più tanto la produzione di oggetti destinati al culto mediale, il core business di questa industria: è la costruzione dell’immagine dei suoi protagonisti, anche indipendentemente dal valore effettivo delle loro opere. Le ragioni materiali di fama e successo sono oramai in ombra rispetto al fatto puro e semplice di averli conseguiti, fama e successo.
L’industria mediale, nella sua età più matura, ha imposto universalmente il canone della visibilità. In ultima analisi non è un paradosso che la visibilità raggiunga il suo culmine nel momento della scomparsa. È anzi banale: non si sono mai viste assieme tante fotografie di Marco Pannella come in questi giorni. Siamo infatti sempre contenti, quando c’è il Sole: ma non proviamo mai tanto l’impulso di osservarlo come quando la Luna lo eclissa.