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 2016  maggio 22 Domenica calendario

Ritratto di Giorgio Ferrara, direttore del Festival dei due mondi nonché fratello maggiore di Giuliano e marito di Adriana Asti

Intorno a piazza di Spagna Roma è gremita di turisti, una fiumana di gente che sciama verso le piccole arterie pedonali che scendono dal Babuino verso via del Corso. La casa al terzo piano ha infissi robusti, il vociare indistinto non turba la quiete del vasto, accogliente salone. Il rosso pompeiano delle pareti rende l’atmosfera più intima e preziosa, con la luce del primo pomeriggio che s’insinua discreta tra le misteriose geometrie di pregiati tappeti anatolici. Giorgio Ferrara, regista e attore, figlio di Maurizio, colonna del Partito comunista, e fratello maggiore di Giuliano, giornalista, conduttore televisivo e politico, è sdraiato sul sofà come un lord d’altri tempi a fare il bilancio di questi otto anni da direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto, un miracolo creato da Gian Carlo Menotti alla fine degli anni Cinquanta che Rutelli gli mise in mano come un giocattolo rotto dopo la dissennata gestione di Francis Menotti, il figlio adottivo che aveva preso le redini del festival dopo la morte del maestro. «Tutti gli amici mi dicevano, lascia perdere, chi te lo fa fare?», racconta Ferrara. «Io invece ero incuriosito, perché venivo da un’esperienza simile, avevo diretto per quattro anni l’Istituto italiano di cultura a Parigi. Anche lì trovai una situazione disperante, un posto dove venivano soltanto italiani a far merenda. Così pensai di raccontare la nostra cultura ai francesi attraverso lo spettacolo, costruendo all’interno del salone un teatrino del Settecento. Sono ottimista per natura, e con lo stesso spirito affrontai Spoleto. Il primo anno fu faticosissimo, perché il festival era diventato un fantasma. Così mi affidai alla mia agenda: chiamai Robert Wilson e Luca Ronconi. La loro ripetuta presenza è stato un traino formidabile». Risultato, da cinquemila presenze il festival si è stabilizzato l’anno scorso su settantamila, recuperando lo smalto che si pensava avesse perso per sempre.
Ferrara e sua moglie, l’attrice Adriana Asti, che vivono tra Roma, Parigi e l’Umbria, hanno riaperto l’appartamento nella capitale in occasione delle repliche di Danza Macabra di Strindberg al Teatro Quirino, lo spettacolo teatrale che Luca Ronconi allestì a Spoleto due anni fa, la sua penultima creatura prima della scomparsa nel febbraio 2015, un testo insidioso che Ferrara affronta con imprevedibile, potente spavalderia, considerando la sua poca esperienza come attore. «A Ronconi divertiva il fatto che fossi io a farlo, e con le spalle coperte dal genio ho accettato», racconta. «L’inchiavardamento registico che ha fatto del mio personaggio è talmente forte che non posso far altro che ripetere esattamente la parte come lui l’ha concepita. È tutta farina del suo sacco. Ho accettato proprio perché a chiedermelo è stato il mio maestro, colui che mi strappò all’Accademia già al primo anno e mi portò a lavorare con sé. Sono stato per dieci anni il suo aiuto regista, poi ogni tanto mi metteva in scena a fare delle particine, in spettacoli immensi come l’Orlando furioso. Pensi che ho avuto l’onore di fare una piccolissima parte accanto a Gassman, quando Luca mise il scena quel meraviglioso Riccardo III ».
Nel 1970, quando Ronconi fu invitato a presentare l’Orlando furioso a New York, Ferrara partì con la compagnia alla volta della Grande Mela. Fu a bordo di quel charter che i grandi occhi della prim’attrice, Adriana Asti, allora trentasettenne (già musa di Visconti e Pasolini e a un passo dalla chiamata di Buñuel per Il fantasma della libertà), affogarono dentro quelli azzurri del ventitrenne aiuto regista («Ero bello come mio padre all’epoca», scherza). Quando atterrarono era già più di un flirt, e oggi sono una delle coppie più affiatate del mondo dello spettacolo. Le mostruose, vampiresche dinamiche familiari che entrambi così magistralmente rappresentano in Danza macabra non li hanno mai sfiorati né la differenza d’età è mai stato un gap. «Adriana (la signora Asti è nell’altra stanza ma riservata com’è non ruberebbe mai la scena al marito, ndr) si sente molto più giovane di me. E lo è nello spirito. Io, d’altronde, ho sempre frequentato persone più grandi, non ho amici della mia età. Abitudinario e sedentario io, asociale lei; si rifiuta categoricamente di seguirmi nelle attività di rappresentanza, ha paura della noia. Dice: sono sicura che quando morirò sarà per noia, quindi non voglio accelerare la fine. Quarantacinque anni insieme son tanti, ma non troppi per un rapporto che non è mai degenerato in routine. La vita coniugale è stata per noi, prima di tutto, un divertimento. La Ginzburg scrisse per Adriana una commedia intitolata Ti ho sposato per allegria (1964; nel 1967 diventò un film con la Vitti e Albertazzi per la regia di Luciano Salce), quella è l’essenza del nostro rapporto. Sono sedotto dall’ottimismo di mia moglie e dal suo buonumore. Ci piace occuparci delle nostre case, ci piacciono i cani, ci piace condurre una vita molto privata e solitaria. Accanto a una donna così allegra, spiritosa e intelligente non mi è mai mancata la vita sociale».
Ferrara è cresciuto in una famiglia con forti motivazioni politiche. Le ha schivate tutte in favore dell’arte, fin dalla precoce iscrizione all’Accademia nazionale d’arte drammatica che pose la parola fine al corso di filosofia che gli aveva consigliato papà, primo presidente comunista della Regione Lazio. «Mia madre era il capo della segreteria di Togliatti, mio padre lavorava all’Unità, mio fratello Giuliano non era ancora nato, io ero piccolo e venivo parcheggiato sistematicamente a casa Togliatti, nel quartiere Montesacro, a Roma», racconta. «Palmiro era temutissimo ma io lo consideravo un vecchio zio. Le frequentazioni di mio padre e mia madre (e più tardi di mio fratello) erano quasi esclusivamente politiche, un giorno Amendola e l’altro Alicata, Napolitano o Berlinguer. L’intera famiglia si trasferì a Mosca nei primi anni Sessanta, quando mio padre, all’epoca di Krusciov, fu nominato corrispondente dell’Unità in Russia (Ferrara parla russo fluentemente, ndr). Ma la politica ha appassionato mio fratello più di me, ci voleva una reazione in famiglia. Io amavo Mick Jagger più dei Beatles, ammiravo Andy Warhol e la sua Factory – precocemente intrigato dall’idea del laboratorio».
Fu Luchino Visconti a mettergli in testa l’idea che avrebbe potuto recitare, anni prima della regia cinematografica del pluripremiato Un cuore semplice(1977), sceneggiatura di Cesare Zavattini dal racconto di Flaubert, con la Asti in cima al cast. «Luchino mi diceva sempre, ma no, ma che regista, tu devi fare l’attore. Fui suo aiuto regista in Ludwig e nell’Old Times di Pinter (1973) con Adriana, Valentina Cortese e Umberto Orsini che fece scandalo all’Argentina. Pinter andò su tutte le furie per quell’allestimento insolito in cui il pubblico fu sistemato sul palco e gli attori in platea su un ring da pugilato; bloccò lo spettacolo definendolo un musical pornografico».
Ora che Visconti e Pinter e Ronconi se ne sono andati si sente orfano? Anche lei arranca nel medioevo dell’arte, come qualcuno chiama il nostro tempo? «È un periodo in cui gli artisti vivono perennemente col baffo moscio. Una lamentazione continua a rimpiangere il passato. Ma è il presente che conta, il resto sono chiacchiere. Meglio essere ottimisti e soprattutto appassionarsi al proprio lavoro, senza stare a lagnarsi. Bisogna fare come Romeo Castellucci, che quest’anno sarà a Spoleto con due spettacoli: non ci sono risorse? Aguzziamo l’ingegno! Così, con le sue idee geniali ha conquistato la Francia, dove gli fanno ponti d’oro. Io stesso, per farcela con l’esiguo budget di Spoleto, ho creato produzioni con altri teatri italiani: con Il Piccolo di Milano, quando c’era Ronconi, con il Teatro Stabile Metastasio di Prato, con il Festival di Ravenna, con il Festival Internacional de Musica di Cartagena, e ho cominciato a far viaggiare le nostre produzioni come Giorni felici e Danza macabra — che nel gennaio 2017 debutterà al Théâtre de l’Athénée di Parigi – o la Trilogia Mozart-Da Ponte. Detesto la lagna, e in questo ho trovato un’alleata formidabile in mia moglie. E quando il lavoro non c’è faccio mie le parole di Adriana: “Nessuno riesce a eseguire l’ozio meravigliosamente come me. Sono molto più brava a nonfar nulla che a recitare”».