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 2016  maggio 22 Domenica calendario

Quelle trecento lettere d’amore che Suso Cecchi D’Amico scrisse a suo marito

In quel primo dopoguerra, Roma era accasciata nella miseria ma anche esaltata dalla certezza di tornare alla vita e al futuro. L’inverno del 1945 fu gelido, mancava il riscaldamento nelle case, l’acqua bisognava andarla a prendere in strada, l’elettricità c’era e non c’era, gli ascensori non funzionavano. Le candele scarseggiavano come tutto, persino la carta per scrivere. Per scaldarsi, Suso Cecchi d’Amico, come tanti romani, passava molte ore sotto le coperte, abbracciata ai suoi due “picci”, come li chiamava lei, Tommaso detto Masolino di sei anni e Silvia di cinque. Ogni tanto andavano ai bagni pubblici per potersi lavare con l’acqua calda. Lei aveva trentuno anni, due meno di Fedele d’Amico, detto Lele, il musicologo che aveva sposato nel 1938: legato alla Sinistra Cristiana, il partito dei cattolici comunisti, era entrato in clandestinità antinazista e antifascista, e con l’evacuazione dei tedeschi e l’arrivo degli alleati a Roma, era tornato a casa in pessima salute, malato di tubercolosi in fase avanzata. Bisognava quindi separarsi ancora: Suso e i bambini ad affrontare con serenità, ironia e persino felicità, la dura quotidianità romana, e Lele lontano, in un sanatorio svizzero, sulle montagne del Cantone dei Grigioni, dove sarebbe rimasto sino alla fine di marzo del 1947. Più di sedici mesi dolorosi e coraggiosi, in cui il grande amore che legava Suso e Lele si trasformò in una valanga di lettere: più di trecento, scritte quotidianamente la sera a letto, che lui conservò per tutta la vita; mentre, precisa Masolino, sino ad oggi quelle di lui non si sono trovate: Suso le aveva rese introvabili o magari buttate per qualche sua ragione?
Chi come me ha conosciuto quel mito insostituibile del bel cinema italiano negli anni della sua grandezza, la ricorda maestosa, ironica, spiccia, una gran signora che si nascondeva dietro la gloria dei nostri grandi registi e l’universale venerazione per il cinema italiano di quegli anni, cui lei aveva donato le parole e spesso anche la storia: De Sica e Blasetti, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, Prima comunione e Peccato che sia una canaglia,
Visconti e Antonioni, Senso e Il Gattopardo, La signora senza camelie e Le amiche, Monicelli e Rosi, I soliti ignoti e Speriamo che sia femmina, La sfida e Salvatore Giuliano. Più di cento film, indimenticabili.
Ora raccolte insieme in un libro da Silvia e Masolino, con la bella introduzione di Cristina Comencini (che con sceneggiatura di Suso ha diretto La fine è nota) quelle lettere ci raccontano di un’altra donna, giovane, molto innamorata, oppressa dai disagi, dalle responsabilità, dalla mancanza di denaro, dalla caccia al lavoro, eppure solare, spiritosa, generosa. Tutti insieme, i suoi foglietti di carta casuale, fitti di una scrittura microscopica, diventano un appassionante, commovente diario quotidiano, mai un giorno senza, per riaffermare continuamente l’amore, la nostalgia, il desiderio per il marito: Amore caro, fammi posto accanto a te; Voglimi bene cicino adoratissimo; Vorrei succhiarti via le infezioni con la bocca; Ti voglio sempre più bene, è una mania; Tirati più in qua e facciamo il famoso scatolicchio… E poi il racconto delle giornate romane: la prodezze dei “picci”, la vicinanza degli amici, le difficoltà di lavoro, la salute di tutti (le malattie dei bambini, il suo dimagrimento e poi la depressione), la morte dell’amico musicista Casella, ma anche dell’amato tassinaro comunista, le prodezze delle domestiche, le galline sul terrazzo, l’emozione del primo uovo covato sul pianoforte, i “suoceroni”(il padre di Lele, Silvio, era critico e teorico del teatro), i primi scontri politici nel Pci, evidentemente una inarrestabile tradizione, il diffondersi dell’Uomo Qualunque (ora potrebbe essere il grillismo), i risultati del 2 giugno ‘46.
Insieme, queste lettere sono un grande abbraccio appassionato, un modo di cancellare le lontananze, di rendere partecipe della vita romana l’amato lontano e solo. Le difficoltà di comunicazione allora erano immense: lettere censurate o perdute, telefonate troppo dispendiose, viaggi oltre che carissimi ancora avventurosi. Ma l’amore di Suso diventava un fiume di parole che se allora confortavano il Lele malato, oggi ci testimoniano tempi difficili eppure vivi, illuminati dalla speranza, dalla nuova libertà, dai primi tentativi democratici con da subito minacce di scissioni, dal risveglio della cultura e della creatività. Tutti poveri, tutti amici, tutti di sinistra, tutti pieni di sogni destinati a realizzarsi. Insieme progettavano lavoro, insieme rincorrevano teatro, concerti, film, tutti giovani, tutti ancora ignoti, tutti sarebbero diventati qualcuno, il meglio della nostra cultura non solo di quegli anni. Insieme in loggione a vedere un Don Giovanni, Suso e Anna Proclemer, Mario Soldati, Ennio Flaiano e Renato Castellani, ospite in casa Nino Rota, a sentire la messa di Alfredo Casella su consiglio di Goffredo Petrassi, in casa a discutere di sceneggiature con Moravia, con Carlo Ponti, in visita alla galleria di Gasparo del Corso e sua moglie Irene Brin, un capodanno da Alba de Cespedes, feste da Guido Piovene e da Flora Volpini, cena tra amici accompagnata da Luchino Visconti. E poi finalmente, dopo tanti lavoretti, cinerubrichette, lezioni di buone maniere alla giovanissima attrice Maria Michi, traduzioni, ecco le prime sceneggiature per Renato Castellani,
Mio figlio professore con Aldo Fabrizi, per Marcello Pagliero Roma città libera con Vittorio De Sica, per Luigi Zampa Vivere in Pace con Fabrizi e L’onorevole Angelina con Anna Magnani, per Lattuada Il delitto di Giovanni Episcopo con Yvonne Sanson. Poi, ricomposta la famiglia, tutti gli altri film, spesso capolavori.
Oggi tutto è lontano, eppure così vivo, fresco, in qualche modo invidiabile: ma molte situazioni non sono cambiate. Scrive arrabbiata Suso il 13 giugno del 1946: «Ma con che gente viviamo? Mi sembra tutto ridotto alla bizza della serva licenziata, che accusa prima di uscire sbattendo la porta, che l’altra serva ruba. Ma non c’è dunque nessuno che sappia stare un po’ zitto, che abbia un po’ il senso della dignità, della grandiosità di certe responsabilità». Si riferisce a un proclama dell’ex re, oggi basta seguire la televisione.