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 2016  maggio 22 Domenica calendario

Con Elle, sesso e sangue tornano sulla Croisette


Basic instinct impresse al Festival di Cannes una svolta popolare. Paul Verhoeven consegnava un thriller patinato pieno di nudi, plastici amplessi, bondage, che culminava nell’accavallamento di gambe senza biancheria di Sharon Stone. Gilles Jacob spiegava allora profetico – che se gli anni Ottanta erano stati cinefili e un filino ermetici, i Novanta avrebbero abbinato qualità e intrattenimento. Ventiquattro anni dopo lo stesso regista porta al Festival Elle, un giallo trasgressivo che condisce con ironia nera il consueto binomio sesso e sangue (il soprannome di Verhoeven è l’Olandese Violento), basandosi sul riuscito romanzo Oh... di Philippe Djian e soprattutto sulla formidabile prestazione di Isabelle Huppert.
Per l’attrice francese, già disturbante Pianista del feroce Haneke, è stata una passeggiata entrare nei meandri torbidi e comici di Verhoeven. Eccola manager di una società di videogiochi fanta-erotici che, violentata in casa da uno sconosciuto mascherato, reagisce armandosi, ma poi finisce per entrare nel gioco perverso del suo aggressore. Questa donna però, senza essere la
femme fatale col punteruolo di ghiaccio, è tutt’altro che una vittima. «È una donna libera che rifiuta di reagire in modo convenzionale a uno stupro», dice Verhoeven. Ventiquattro anni dopo il concetto di trasgressione è cambiato. In un Festival in cui l’eutanasia per sodomia e la necrofilia d’autore non fanno battere ciglio alle platee specializzate,
Elle è stato applaudito e ben recensito. Alla scottante questione delle scene di sesso violento – consenziente o no – Verhoeven aggiunge elementi ulteriori di polemica: una moglie bigotta che conosce e tace sui peccati del marito «come in passato ha fatto la Chiesa sui preti pedofili», dice il regista, che del Vaticano subì gli strali ai tempi di Basic instinct.
È però consapevole che il ritratto di una donna che reagisce in modo perverso allo stupro è più rischioso, rispetto a quello dell’assassina glamour Sharon Stone. E che Hollywood è ancora puritana: «Dovevo girare il film in Usa, ma ho capito che nessuna attrice americana avrebbe accettato una storia così amorale». Ora mette le mani avanti sulla (eventuale) reazione “delle femministe”: «So che a loro non piacerà. Ma ribadisco che questa è una storia, non è la vita, né una mia visione della donna in generale». Gli fa eco la Huppert: «Questa è una particolare donna che agisce in un modo tutto suo. Non significa che altre donne dovrebbero farlo». Definivo l’intervento dello scrittore Djian: «Il rapporto tra lei e l’assalitore è qualcosa di brutale che si trasforma in un gioco forse sadico. Ma lei non è certo una donna che s’innamora del suo violentatore». Il rapporto estremo si trasforma nel film in una sorta di conoscenza di sé e delle proprie brutali inclinazioni. «È una donna aggressiva: con la madre e il di lei toyboy, con l’amica che tradisce, con il figlio e la di lui fidanzata. La violenza che c’è in tutti i miei film, che a me sembra normale, è semplicemente quella del mondo che trova spazio sui media, ogni giorno. Un mondo di cattive notizie, che ci rende dipendenti dai disastri, perché sono affascinanti e perfino belli, visti da lontano. Come i quadri di Turner, la distruzione può essere sublime. Da vicino, ovviamente, è orribile».