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 2016  maggio 22 Domenica calendario

Il Vajont è tornato di moda

Questo è il posto dove i rami sono diventati tronchi. Quando la montagna è caduta nella diga, il 9 ottobre 1963, per quindici anni non è più cresciuto niente. Poi, però, il bosco è tornato. Alcune piante sono venute su storte perché la terra era tutta rivoltata, ce ne sono persino di orizzontali, sdraiate ma vive, con le radici e tutto. Sembrano gente che dorme sul prato. «E dal tronco sono cresciuti i rami verticali. Anzi, tronchi più grossi di quelli di prima».
Si chiama Bosco Vecchio ed è proprio dentro la diga del Vajont. Dentro e intorno. Duecentosettanta milioni di metri cubi di roccia dentro 115 milioni di metri cubi d’acqua, una tomba sulla quale con infinita pazienza dopo mezzo secolo sono tornati i fiori, le volpi, la coturnice. Dicono che la gente di qui sia fatta allo stessa modo. «A Erto eravamo in 1800, e dopo lo spopolamento siamo rimasti 390. Ma la diga è diventata lo scopo della nostra vita e di un po’ della nostra economia». Italo Filippin ha 73 anni e siede al piccolo bar vicino alle sculture che Mauro Corona ha lasciato per strada, proprio davanti al suo sgabuzzino creativo. «Si fida, Mauro. Bravissimo scrittore, e col legno ancora di più». Per colazione, Italo chiede alla barista uno sprizzino ma senza Aperol. Dopo essere stato testimone e soccorritore, commissario per la ricostruzione e sindaco di Erto, da quand’è in pensione fa la cosa scritta sul badge che porta al collo: “Informatore della memoria”. «Accompagno le persone che vengono a visitare la diga, parlo con i ragazzi, insegno il mestiere ai nostri volontari. In tutto siamo una quarantina. Quei quattro minuti di apocalisse sono un racconto che avrò ripetuto un milione di volte, perché è mio dovere e perché questo è un luogo sacro».
Anche Italo Filippin è un ramo diventato tronco. «Dobbiamo ringraziare Marco Paolini e il suo spettacolo, vent’anni fa. Da allora siamo tornati di moda». E i due borghi dimenticati, Erto con la gente cacciata via dopo l’ecatombe e Casso come un nido d’aquila sulla roccia, si sono impadroniti di nuovo del loro destino. «Qui nel 2004 esistevano solo quattro attività commerciali, oggi ne abbiamo più di quaranta». Luciano Pezzin sta per chiudere il suo mandato di sindaco a Erto («Saluterò tutti con una grande festa, lo scriva») e spiega che la dolorosa storia non è solo ricordo ma energia: «Abbiamo 130 mila visitatori l’anno, e 50 mila pagano il biglietto per passeggiare sull’orlo della diga e farsi raccontare quello che accadde qui, prima, durante e dopo la strage, perché è una faccenda lunga». Per l’economia dei borghi e delle frazioni è una ricaduta da 300 mila euro all’anno. «Soltanto un’integrazione di stipendi, però si è mosso qualcosa».
Otto ristoranti, l’Hotel Erto, le camere in affitto, i bar, la rete Albergo diffuso, qualche agriturismo e qualche rifugio in quota come il Buscada, dove nell’ex cava di marmo hanno aperto un museo e la casa dei cavatori è diventata un ristorante. «Niente male per un paese abbandonato», dice Italo mentre ci porta sul coronamento della diga. Tra le griglie della passerella tira un vento forte e c’è una luce formidabile. «La gente mi chiede chi ha pagato per quei 1917 morti, chi hanno condannato. Io rispondo che lo Stato italiano è il principale responsabile, ma ai bambini delle elementari non so mica come spiegarlo. La verità brucia ancora». Nella gola strettissima rimbomba la cascata, e dentro la diga si vede bene il bosco. «La natura ha una forza che può solo insegnarci a vivere». Squilla il cellulare, la suoneria è una vocetta di bimba che dice qualcosa di incomprensibile: «Ho registrato la voce di mia nipote Resi che ha 6 anni e recita in dialetto la filastrocca del tram di Opicina».
All’ombra della diga, anche Silvia Maronato è uno dei rami nuovi, sebbene lei non sia di qui ma di Este. «Questo posto mi ha conquistato dopo uno stage universitario sul diritto dell’ambiente, ci ho vissuto per tre anni e sono diventata volontaria della Pro loco». Silvia ha 30 anni e coordina gli Informatori della memoria, fissa le visite, «anche quattro o cinque al giorno nella bella stagione», contatta i gruppi, organizza la formazione dei volontari più giovani. «Non basta non dimenticare, bisogna istigare alla memoria per creare una migliore coscienza civica e storica. Il passato deve cambiare le persone». Rivela di avere ricevuto pressioni, come del resto Italo, per edulcorare i racconti, per non essere troppo critica con l’Enel che è ancora proprietaria dell’immane cripta. «Ma noi non cambiamo una virgola». Il futuro, per Silvia, è come la radice di un albero che sembra storto ma non lo è: «In autunno abbiamo organizzato un corso per fabbricare le gerle, non è mica antiquariato umano, si sono iscritti in tanti. E a ottobre ci sarà la seconda maratona di lettura itinerante, ognuno legge quello che vuole, si va di borgo in borgo, l’anno scorso abbiamo sforato di tre ore: 27 invece che 24, perché il tempo e le parole non bastano mai».
Italo ci segue silenzioso, poi ci spiega cosa dirà ai ragazzi in attesa della visita. «Ripeterò che quella notte c’era odore di zolfo: quando le rocce precipitano è come se si accendessero. Dirò dei morti che galleggiavano sull’acqua, dei corpi di persone e animali sugli alberi e nel fango anche se i più non li trovammo, erano disintegrati. Dirò che non soffrirono, tutto accadde in quattro minuti, io avevo 19 anni. Mostrerò Longarone, là in fondo, che era cancellata. Ma soprattutto ripeterò quanto è stato difficile tornare nelle nostre case: abbiamo vissuto otto anni da profughi, da clandestini e c’è ancora chi non vuole parlarne per vergogna, per paura, per rabbia, i più vecchi specialmente». Nel piazzale si fermano altre auto e un paio di furgoni. La gente scende, ma prima di fotografare resta immobile, guarda la diga e non crede. Fabiano Bruna è una guida naturalistica e sta accompagnando un gruppo. «Il Vajont è tante cose insieme: storia, memoria, geologia, ambiente. È un parco di 36 mila ettari nato vent’anni fa sul territorio di otto comuni e due province, è un pezzo di economia di cui non dobbiamo vergognarci. Ed è la prova che la natura è più forte dell’uomo, persino dopo un’inondazione che ebbe potenza doppia dell’atomica di Hiroshima. La sua forza si chiama resistenza e resilienza. Adesso in questo cielo volano le aquile reali, nel bosco vivono migliaia di marmotte e sono tornati i cervi e i caprioli. L’habitat è cambiato, ci sono persino uccelli lacustri». Lo chiamano Bosco Vecchio, invece è nuovissimo. Ed è come se avesse mostrato agli uomini che il tempo del dolore non passa ma si trasforma. «Sembrava un terreno lunare», dice Italo ricordando quella desolazione «e adesso i giovani botanici vengono a studiare i nostri alberi storti». Hanno anche scoperto un’orchidea tra le più rare, per la scienza si chiama Liparis loeselii. «Cresce solo qui, sull’orlo della fossa». È un piccolo fiore bianco.