il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2016
Elogio dell’ansia
Se passa un’ambulanza nel raggio di pochi chilometri, bisogna accertarsi che a bordo non ci siano figli, parenti stretti, amici, parenti acquisiti, amici di Facebook, conoscenti. La frutta va lavata per almeno 3 minuti, poi asciugata e sfregata con una pezza pulita (ciò nonostante ingeriremo milioni di germi). Il beauty-case delle vacanze va riempito di tutti gli antibiotici a cui si sono dimostrati sensibili i batteri mondiali, e se si va da Cosenza in giù si porta l’antidoto per i morsi di serpenti tropicali. In ogni caso, prima di prenotare si controlla che nel luogo del soggiorno ci siano farmacie (si escludono dunque le isole greche piccole). In aereo si controlla che il giubbotto salvagente sia effettivamente sotto al sedile, e lo si staccherà dal supporto quando l’hostess non guarda.
In stazione si arriva almeno un’ora e 15 minuti prima. I 15 minuti servono per andare in bagno, comprare acqua e giornali, controllare se è già uscito il numero del binario sul tabellone. Poi, si usa l’ora restante tenendo l’occhio sul tabellone, diminuendo le possibilità di perdere il treno (si chiama “complesso della ferrovia”, ce l’aveva anche Freud). Ogni minuto di ritardo di qualcuno che si sta aspettando può voler dire, in quest’ordine: sua morte, incidente grave, sua improvvisa malattia, rapimento, errore circa data e luogo dell’appuntamento.
L’ansia è l’unica risposta umana sensata ai colpi del caso. Noi ansiosi siamo creature allenate (Woody Allen: «Io non ingrasso di un grammo perché la mia ansia funziona come l’aerobica»). Non solo sappiamo che la catastrofe è dietro l’angolo, ma questa certezza, lungi dal donarci la grazia del fatalismo rassegnato, ci rende vigili, perennemente allertati.
L’ansia non è un sentimento, in quanto tale intermittente, ma una specie di attitudine innata, come saper giocare a scacchi o far di conto. Se non sei ansioso, non puoi diventarlo. Ma un ansioso sopraffino, al moltiplicarsi delle responsabilità a cui lo mette davanti la vita, può perfino inventare minacce dove non ve ne sono. Gli scienziati chiamano queste previsioni «interpretazioni catastrofiche» (per la fisiologia dell’ansia, consigliato il sontuoso Ansia di Joseph LeDoux, Raffaello Cortina).
Come gli esperti yogi possono levitare da terra, all’ansioso basterà mettersi seduto per trovare mille motivi di apprensione. L’ansia è uno yoga al contrario (e infatti lo yoga è suo nemico insieme a manuali, metodi e farmaci). In Curarsi con i libri (Sellerio), Ella Berthoud e Susan Elderkin consigliano di rilassarsi leggendo Henry James: strano, perché il suo Giro di vite è forse il libro più ansiogeno della storia della letteratura.
Questo accanimento universale per curarci l’ansia ci mette ansia. Per fortuna, i social network ci forniscono sempre nuovi motivi di nevrosi, anche se ogni generazione pensa di essere più ansiosa della precedente (lo dice anche il poeta W. H. Auden ne L’età dell’ansia).
L’ansia non è la paura, benché confini con essa, come l’ironia non è il sarcasmo. L’ansioso non teme che qualcosa possa andar male: lo sa. Ma l’ansia non è pessimismo: laddove il pessimista non si aspetta niente di buono e in ciò vive pacificato, quasi compiaciuto di aver avuto ragione, l’ansioso prevede le calamità e insieme lotta per evitarle. È un atleta del limite: se finisse naufrago su un’isola deserta, non si abbandonerebbe alla disperazione, ma comincerebbe a preoccuparsi per l’effetto cancerogeno dei raggi Uva, per gli attacchi notturni degli animali feroci, perché nessuno lo va a cercare, per la lavatrice lasciata accesa a casa. L’ansioso lotta per la vita attraverso l’ansia. «Finché c’è vita, c’è pericolo», scrisse il poeta R. W. Emerson; ma anche, specularmente, finché c’è pericolo c’è vita. L’ansioso, in fondo, è un ottimista.