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 2016  maggio 23 Lunedì calendario

Osler è morto, Osler è vivo

È morto ed è risorto. Chi? Gesù Cristo? No, Marcello Osler. Era ormai in una stanza riservata dell’ospedale e tutti lì ad aspettare l’ultima ora, medici, amici, tutti. Dopo mesi di coma, speranze zero. Un infarto l’aveva schiantato, proprio in bicicletta e con suo figlio, nella sua valle, in mezzo alla sua famiglia e ai suoi grandi amori. Poi, l’incredibile, Marcello muove gli occhi, impercettibilmente, un po’ alla volta le labbra, le mani e torna fra noi. Roba de e dall’altro mondo. Stupore generale, contro ogni previsione della scienza, commozione di tutti, tecnici e innamorati. E io sono laico, molto laico.
Ma di chi parliamo? Ora ve lo spiego: Marcello Osler io me lo sognavo la notte e andando a scuola sull’autobus a due piani dove mi piazzavo sopra, esattamente sopra all’ autista per illudermi di essere io a guidare. E così pure mi immaginavo telecronista del Giro d’Italia che ogni corridore conosceva nel nome del paesino di origine, accentando quel fascino che il ciclismo regala, l’amore per i dettagli, le culture e le sfumature.
Mi è capitato poi, da grande di fare due Tour de France e tre Giri d’Italia, da inviato, rifugiandomi in Alfredo Martini per i segreti del mestiere e passando i pomeriggi della “carovana” con i transennisti e con quelli che aspettano i corridori sulle balze di erba delle curve in salita. Quando ero piccolo Osler era un pezzettino di carta. Era un omino bianco e nero con la maglia della “gomma del ponte”.
M’innamorai di lui dopo la Potenza-Sorrento, 183 chilometri in faccia al vento e alla faccia dei grandi campioni di quel Giro, increduli e staccati tutti dall’inizio, tenendo sull’ Agerola, sul Faito e poi sul falsopiano prima dell’arrivo che non arrivava mai. Osler era uno dei 30-40 pezzettini di carta che animavamo il mio Giro d’Italia fatto in casa.
Facevo una tappa per velocisti in corridoio, al bagno era la prova su pista nella vasca asciutta, un po’ mossa la frazione in cucina e la tappa di montagna, tutta saliscendi, andava in scena sul divano e sulle due poltrone e fiori di velluto che simulavano perfettamente una rigogliosa boscaglia alpina. Era una competizione decisa dall’aria.
Funzionava che la gara la decideva un mio leggero soffio, a volte malandrino sui corridori di carta. Sezionavo un foglio a quadretti in tanti rettangolini con la bandiera del paese e il nome della squadra. Mi sceglievo i grandi: Moser, De Wlaeminck, Saronni, Pollentier, Johan De Muynk, Baronchelli, Panizza, Sercù, Freddy Maertens, Battaglin, Bitossi, Bertrand Theveneth, LucienVan Impe, Zoetmelck, Van Linden, Knut Knudsen e Hinault e gli spagnoli, con in testa Galdos, che si scatenavano solo nelle tappa di montagna, cioè sul divano del salotto. Poi c’era Osler. Osler il gregario. Era l’unico non campione fra i miei pezzettini di carta. Lui era la mia garanzia del verosimile. Osler che il gioco era la realtà. Infatti, nel gioco, doveva succedere quello che nel reale accadeva. Non poteva vincere, Osler. Poteva scombinare i piani, però. E anche nel mio Giro d’Italia (e di Casa Mia) questo accadeva. Lo mandavo in fuga, imbrogliando me stesso e soffiando come se fosse tutto regolare. Lo lasciavo cadere come fosse la Bambola di Patty Pravo che sentivo cantare da mia mamma dalla cucina e lo buttavo giù, soffiandogli contro perché anche la mia corsa e il mio gioco, per essere vero e divertente, dovevano sembrare il Giro alla tv.
Ma poi, un giorno, Osler vinse davvero, a Sorrento accadde e allora, per una volta, anche io lo feci arrivare primo sul divano di velluto del salotto di mia mamma. Non ho avuto abbastanza coraggio di anticipare il destino e me ne vergogno. Anzi, se Marcello Osler non avesse compiuto quella impresa, io non l’avrei fatto vincere mai. E non ne vado fiero. Ma lui, quel giorno a Sorrento e in quel Giro, che si sarebbe concluso con la sfida a bout de souffle fra Francisco Galdos e Fausto Bertoglio nello Stelvio innevato, lui Osler, in quel Giro vinse. Correndo da solo, arrivando da solo e sulle ali della storia e del mito.
Cosa avrà pensato Marcello in quell’arrivo a Sorrento, cosa gli sarà passato per la mente pochi chilometri prima del traguardo? Sulla schiena aveva Brooklin, la sua gomma fortunata, alle spalle Sercù e De Wlaemink i suoi capitani, il Belgio che se la comandava ancora, anche se Merckx, avendo divorato tutto, sazio, era alla fine dello strazio. In bicicletta se non pedali non vai e la fatica non la puoi evitare. Ci vuole amore. Si celebra la fatica, il coraggio la forza di volontà, la gente. La gente semplice che esce di casa e si racconta di un’altra vita e attende una libellula di ghiaccio che spunta dalla curva e pedala perché se si fermasse morirebbe come una rondine che traversa il mare e non trova il pennone della nave su cui ristorare l’affanno della migrazione. All’arrivo, quel corpo intirizzito lo abbraccia la coperta del massaggiatore, come fa un padre a un figlio.
Poi lo conobbi una sera, Marcello, complice una cara amica trentina, Luciana Chini, sua cugina, e mi trovai nell’imbarazzo di raccontargli della storia dei pezzettini di carta e che se c’era un vento che gli andava contro in qualche occasione, lui non lo poteva sapere, ma quel vento che gli rallentava la corsa e gli induriva in quadricipiti era alimentato dal soffio di un ragazzino che gonfiava le guancette sul divano di velluto del salotto in mezzo alla boscaglia alpina perché non vincesse, sognando di fare la cronaca del Giro d’Italia, dentro un appartamento al sesto piano, all’inizio della periferia di Roma, proprio sopra i binari della ferrovia.
L’altra sera a Pergine Valsugana c’era tutto il paese a festeggiarlo Marcello. Un libro racconta la sua vita prima della morte e lui, dopo morto, da vivo, con sua moglie Elena ha promesso altra vita generosa come sempre. “La fuga più lunga” racconta tutta questa storia. L’ha scritto Elena, semplicemente una moglie innamorata. L’incasso del libro sosterrà la lotta contro le leucemie dell’Ail. Elena, ha messo insieme le parole e le emozioni di tutti. Nadia, Mara e Erika le figlie di Marcello, bravissime, hanno suonato e cantato, in un teatro strapieno, Marcello, ironico, si è divertito e ci ha bevuto su.