il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2016
L’India è diventata una democrazia repressiva. Indagine sull’ultranazionalismo di Modi
A due anni esatti dall’ascesa al vertice della più grande democrazia del mondo, il primo ministro indiano, il sessantacinquenne Narendra Modi, sembra sempre più orientato a governare il Subcontinente con la retorica nazionalista-religiosa e la soppressione del dissenso, abbinati a massicce dosi di propanda, iniettate nel corpo sociale dai tanti giornali e canali tv filogovernativi. Anzichè tentare di migliorare la condizione delle caste svantaggiate e povere, a cui appartiene, il premier è concentrato ad allevare una generazione di induisti ultranazionalisti che si rifiutano di imparare l’inglese perché è la lingua degli ex coloni.
Nelle ore successive al suicidio a metà gennaio del ventisettenne Rohit Vemula, il ricercatore universitario di casta Dalit –quella dei cosiddetti impuri, la più bassa nella scala induista- espulso dal campus di Hyderabad perché accusato di aver tirato uno schiaffo al leader degli studenti nazionalisti legati al partito del popolo indiano, il Bjp al governo, Modi è volato nel Sikkim per battezzare con il proprio nome una nuova varietà di orchidee. Mentre nelle università montava la protesta in segno di solidarietà nei confronti dei compagni dalit di Vemula in sciopero della fame, il pio premier – che è riuscito a scalare la piramide sociale ed emergere dalla condizione di chai wallah, i ragazzi che vendono il tea in strada, grazie al suo attivismo all’interno dell’organizzazione giovanile induista Rashtriya Swayamsevak Sangh, l’Rss- preferiva dirigersi verso le serre dove il suo ego sarebbe stato soddisfatto.
L’attivismo passato del premier
Quando militava nell’associazione dei volontari nazionalisti induisti sosteneva di voler far crescere l’economia del suo paese. Risultato ottenuto, in effetti, quando era governatore dello stato del Gujarat. Ma, una volta seduto sull’ambita poltrona federale, ha dimostrato che in realtà ciò che gli interessa aumentare è la retorica nazionalista incentrata sulla demonizzazione della vasta minoranza musulmana, dell’intellighenzia di sinistra e del ibero pensiero anche in ambito scientifico e letterario. Tant’è che nemmeno un mese dopo il suicidio del ricercatore Dalit, Kanhaiya Kumar, leader dell’Organizzazione studentesca di sinistra della Jawahharlal Nehru university, è stato arrestato con l’accusa di sedizione per aver scandito “slogan contro l’India”. La ricerca di un capro espiatorio è sempre più frenetica da parte delle autorità indiane, decise a distogliere così l’attenzione dalle svariate contraddizioni e promesse mancate del premier proprio in ambito socio-economico.
Nonostante la crescita inarrestabile dell’economia indiana, più del 7% all’anno, infatti, il governo non sembra essere stato in grado finora di far fronte alla continua richiesta di nuovi posti di lavoro: in una società di un miliardo e 300 milioni di cittadini, ogni mese circa un milione di giovani si affaccia sul mercato del lavoro. La situazione è resa ancora più complicata dal millenario problema della divisione in caste. Ufficialmente abolito nell’ormai lontano 1950, questo sistema di suddivisione creato dall’induismo per irregimentare la comunità indiana e le sue aspirazioni, continua a pesare moltissimo. Prova ne è che nell’ultimo censimento di cinque anni fa il governo di allora aveva voluto includere nell’indagine anche la controversa struttura delle caste, seppur separata dal resto del conteggio. Rispondere alle domande sulla casta di provenienza non era obbligatorio ma la scelta di ripristinare un parametro di classificazione abbandonato dai censimenti dopo l’epoca coloniale, ha comunque sollevato molte polemiche.
L’esecutivo del Congresso di Sonia Gandi, aveva motivato la decisione con un argomento ineccepibile: data la forte correlazione esistente da sempre tra caste e status socio-economico degli individui, raccogliere questi dati permette di combattere con più efficacia le disuguaglianze e l’enorme divario tra ricchi e poveri. L’obiettivo dichiarato era quello di censire i gruppi appartenenti a quelle che la Costituzione indiana chiama genericamente Socially and Educationally Backward Classes (classi arretrate socialmente e scolasticamente), che costituiscono circa il 52% della popolazione. Per aiutare l’uscita dall’emarginazione delle caste più svantaggiate, la stessa Costituzione, entrata in vigore dopo la fine della dominazione britannica, prevede quote per l’ingresso nei licei, università e nell’amministrazione pubblica.
Impoveriti a causa del cambiamento provocato dalla globalizzazione, di cui il governo non pare accorgersi, procrastinando per esempio le riforme sulla tassazione unica delle merci e dei servizi, e arrabbiati per la difficoltà di iscrivere i figli nelle scuole pubbliche migliori, i rappresentanti di alcune caste di medio livello – tra cui quella dello stesso Modi – nei mesi scorsi sono scesi in piazza per chiedere di accedere alle stesse quote assegnate a coloro che stanno più in basso nella scala sociale.
L’implosione del sistema economico
Non avendo ottenuto nulla, tre mesi fa migliaia di appartenenti alla casta Jat dei proprietari terrieri hanno bloccato per giorni le arterie stradali che portano alla capitale e assaltato la lunga conduttura che rifornisce d’acqua la megalopoli, lasciandone a secco i rubinetti. Negli scontri, la polizia e l’esercito hanno ucciso dieci persone e ferite 150. Il premier non si trovava nel suo ufficio di Delhi. “Non è chiaro cosa pensi il primo ministro di tutte queste protese di varia natura, che si susseguono dallo scorso anno, semplicemente perché è sempre in viaggio. Il suo comportamento è di giorno in giorno più strano e lontano dalla realtà del paese”, dice con tono sarcastico e grave lo storico Ramachandra Guha. In un recente editoriale in prima pagina, il più diffuso quotidiano nazionale, The Hindu, ha denunciato: “A quanto pare, i leader del Bjp, tra cui alcuni esponenti del governo, vogliono dare una legittimazione ufficiale all’Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad (Abvp), l’organizzazione degli studenti nazionalisti indù. Ma leggendo queste ultime vicende come una battaglia dell’Esecutivo per il controllo ideologico delle università, si rischia di non capire la gravità del momento. Il ministro dell’Interno ha infatti dato credito ad accuse ridicole per montare un caso contro gli studenti della Jnu University mentre non ha fatto una piega di fronte al rifiuto delle forze dell’ordine di arrestare gli avvocati e il deputato che in tribunale avevano aggredito gli studenti sotto accusa. Qualcuno del Bjp ha condannato le violenze, ma si è indignato per gli slogan definiti ingiustamente antipatriottici”.
L’editoriale prosegue quindi puntando il dito direttamente contro Modi: “Il primo ministro dovrebbe rispondere ai timori derivati dal fatto che il nazionalismo sia usato per distinguere tra chi può contare su una deroga da parte del potere e chi invece no”. Modi invece rimane in silenzio, che suona come un assenso, senza peraltro preoccuparsi dell’enorme contraddizione insita nella riesumazione e nell’abuso della legge sul reato di sedizione introdotta due secoli fa – e dopo l’indipendenza caduta nel dimenticatoio – proprio dall’Impero britannico per contenere le spinte indipendentiste dei progenitori del partito nazionalista di cui l’ex venditore ambulante Narendra è il leader indiscusso da quando era governatore dello stato del Gujarat nel 2001. Persino una superstar di Bollywood, l’attore musulmano Aamir Khan ha espresso pubblicamente il proprio “timore per la crescente intolleranza nei confronti di chi dissente pacificamente dall’agenda ultranazionalista e induista dell’attuale governo e per questo viene bollato di antipatriottismo”.
Khan ora sta meditando di lasciare il paese per proteggere i figli dopo che centinaia di nazionalisti legati alla Rss hanno bruciato le sue foto nelle strade di Mumbai. Anche quaranta protagonisti del mondo dell’arte e della letteratura sono nel mirino dei seguaci di Modi dopo aver deciso di restituire i premi ricevuti in patria in segno di dissociazione dalla propaganda induista e dalla violenza che ha scatenato. Ha iniziato sei mesi fa Nayantara Sahgal, autrice del best seller Il giorno dell’ombra che ha restituito il premio ricevuto nel 1986 dalla Sahitya Akademi, l’istituzione letteraria più prestigiosa. La Sahitya Akademi, che riceve finanziamenti dal governo, non ha mai condannato gli episodi di violenza che secondo gli scrittori minacciano la libertà di espressione in India. Il più grave si è verificato il 25 agosto 2015 quando lo scrittore Malleshappa Madivalappa Kalburgi è stato ucciso nella sua casa nello Stato del Karnataka, probabilmente da fondamentalisti indù, in risposta ad alcuni suoi libri che criticano delle pratiche della religione più diffusa nel Subcontinente. Altri due scrittori, Narendra Dabholkar e Govind Pansare, sono stati uccisi negli ultimi anni da ignoti, probabilmente per le loro idee laiche.
Le proteste per i diritti
Le vittime non sono solo i protagonisti della cultura. Quattro mesi fa, Mohammad Akhlaq, musulmano, è stato ucciso da una folla inferocita a Dadri, in Uttar Pradesh, per il solo sospetto che avesse in frigo carne di mucca, animale sacro per gli indù. Alla protesta degli scrittori, animata da Arundhati Roy, la più nota scrittrice e intellettuale nonché ambientalista e attivista per i diritti dei fuori casta e delle tribù adivasi, si sono uniti anche artisti, accademici e storici. E infine numerosi scienziati che denunciano manipolazioni e intromissioni del governo per orientare anche l’insegnamento delle scienze esatte in senso “patriottico”. Il 3 novembre, dopo aver rimandato al mittente il premio per la sceneggiatura vinto nel 1989, la Roy ha scritto un editoriale su The Indian Express per far sapere al mondo che “la politica del governo nei confronti delle minoranze etniche e religiose e dei cosiddetti “intoccabili”, i Dalit, le costringe a vivere in un clima di terrore. L’unico forte segnale a sfavore del governo è venuto per ora dallo Stato del Bihar. Le elezioni regionali che si sono tenute lo scorso 5 novembre hanno decretato la sconfitta del partito di Modi. A Kerala, nello stato più a sud dell’India ha appena vinto il partito Comunista, che però ha già governato più volte senza però risolvere il problema delle caste, come non lo ha risolto in decadi di governo il partito del Congresso. Eppure sia i rappresentanti comunisti del Kerala, unico stato abitato da una vasta comunità cattolica, sia Rahul Gandi, figlio di Sonia e vicepresidente del partito del Congresso hanno sfruttato a fini elettorali il suicidio del ricercatore.