il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2016
Con Pannella finisce un mondo politico
Nei funerali laici di sabato a Roma, negli applausi e negli occhi lucidi di chi ha salutato Marco Pannella, c’era il senso del tramonto di un mondo e di un’epoca. Ha ceduto uno degli ultimi pilastri che hanno retto la Prima Repubblica, il depositario di una tradizione politica – quella radicale – nobile e longeva.
Rimane il partito di Pannella con le sue mille sigle. Rimane soprattutto la sua radio, uno sterminato archivio storico e un tesoro economico: 4 milioni di finanziamento pubblico all’anno e altri 9 per la convenzione con Camera e Senato.
Nei prossimi giorni, quando gli occhi torneranno asciutti, i Radicali dovranno trovare un nuovo equilibrio e un compromesso per sopravvivere. Se ne va una delle ultime icone della Prima Repubblica, dunque. Ma nonostante i fallimenti, i lutti e gli sgarbi del tempo, quell’epoca in Italia non è mai stata davvero archiviata.
I dinosauri non estinti del Pentapartito
“Pci Psi Pli Pri… nun te reggae più”. L’inno anti Casta (e ante litteram) di Rino Gaetano è del 1978. Il Pentapartito guidato da Craxi, Andreotti e Forlani sarebbe stato inaugurato poco dopo. Era l’inizio della fine, la stagione dei fasti e delle degenerazioni; il piano inclinato che avrebbe portato a Tangentopoli, all’implosione del sistema. Con socialisti e democristiani, nella formazione che ha retto l’Italia fino al ‘91, c’erano socialdemocratici (Psdi), Repubblicani (Pri) e Liberali (Pli). Sigle storiche, dinosauri estinti? Non del tutto.
Pochi giorni fa, le cronache politiche hanno regalato una notizia bizzarra. Il titolo è pressappoco il seguente: “Flavio Tosi è il nuovo Ugo La Malfa”. Si spiega così: l’ex leghista ed ex sindaco di Verona ha rianimato il Partito Repubblicano Italiano, il più antico della storia del Paese (fu fondato nel 1874). I quattro parlamentari di Tosi alla Camera (Bragantini, Caon, Marcolin e Privitera) hanno fondato, all’interno del Gruppo Misto, la componente “Fare! – Pri”. Sono tutti tosiani, non c’è neanche un repubblicano, ma è un dettaglio: al Misto ogni anno spettano in media 10 milioni di euro di fondi pubblici ai gruppi parlamentari. Si calcola – grazia al lavoro di Openpolis – che il valore medio pro-capite di un deputato è di 50 mila euro all’anno. Per il Pri, che lotta a denti stretti per sopravvivere, quei soldi sarebbero un’autentica benedizione.
Lo scantinato degli eredi di La Malfa
I repubblicani oggi sono confinati all’irrilevanza politica e agli stenti economici. Il portavoce, Riccardo Bruno, ci accoglie negli uffici romani: uno scantinato nel quartiere Prati. Bruno non nasconde la sofferenza: è ancora fresco il ricordo del bel palazzo in corso Vittorio Emanuele (pieno centro di Roma), dominato dalla grande edera verde, simbolo del partito. La sede è stata ipotecata e poi prelevata dalle banche nel 2013. I reduci ora si riuniscono in questo seminterrato non lontano da piazza Mazzini. Tre stanze; qualche stampa, bandiere e vecchie foto alle pareti, comunque piuttosto spoglie; un busto di gesso del patriota carbonaro e uno di metallo di La Malfa. Qualche numero: il Pri ha circa 5 mila iscritti (costo della tessera 25 euro) e un solo dipendente; non ha un segretario e fa politica “principalmente attraverso i social network”, come spiega Bruno. La lista in appoggio ad Alfio Marchini che i repubblicani avevano presentato in vista delle elezioni di Roma è stata esclusa perché non sono riusciti a mettere insieme mille firme. La decadenza è nella successione dei nomi di chi ha fatto il partito: da La Malfa e Spadolini si è passati a Denis Verdini (che è cresciuto proprio nel Pri) e Francesco Nucara, ex viceministro berlusconiano, a capo dei Responsabili arruolati per salvare l’ultimo governo dell’ex Cavaliere. Malgrado tutto, il Pri sopravvive. Qual è lo scopo? “I repubblicani – sorride Bruno – sono tignosi”.
Le lunghe vite di liberali e socialisti
È un segreto custodito da pochi feticisti della Prima Repubblica, ma anche il Partito Liberale Italiano è ancora in vita (è stato ricostituito nel 1997). A tenerlo in piedi c’è un anziano navigatore della politica italiana. È il siciliano Stefano De Luca, classe 1942, già sottosegretario nei governi Goria, De Mita, Andreotti VI e VII, Amato e infine Ciampi. I liberali hanno pochissimi voti e ancora meno soldi: non incassano finanziamento pubblico, sopravvivono con le donazioni private e con il 2×1000, a bilancio hanno spese per appena 47mila euro. La sede è in una palazzina a Roma, nel quartiere Pinciano. “Siamo un presidio – sorride De Luca –, una testimonianza di civiltà culturale e giuridica”. Anche loro si sono infilati in un gruppo parlamentare e ne godono i beneifici: nel Misto della Camera c’è la componente “Partito Socialista Italiano (Psi) – Liberali per l’Italia (Pli)”. Tra i 5 deputati che la compongono, pure in questo caso, non c’è nemmeno l’ombra di un liberale. Ma tant’è: il Pli esiste. Ha presentato una sua lista in sostegno di Giorgia Meloni a Roma e ha provato a farlo pure a Milano con Stefano Parisi, ma il loro appoggio è stato rifiutato. Lo spiega De Luca: “Avevamo candiato la transessuale Efe Bal. Quei bigotti non hanno voluto”.
Il Pli oggi è visceralmente antirenziano. Sostiene il segretario: “La tendenza autoritaria avviata dal premier e della sua riforma costituzionale non è pericolosa, è pericolosissima. Ha lo spirito di Berlusconi e Mussolini, senza averne la caratura”. Il presidente del Consiglio è avvisato.
I socialisti se la cavano decisamente meglio. Gli eredi del garofano di Nenni e Craxi sono stabilmente in maggioranza e hanno eletto un pugno di deputati nelle liste del Pd. Il rischio, semmai, è di scomparire nella pancia dei dem. Prospettiva sopportabile: oggi hanno un viceministro (il segretario Riccardo Nencini alle Infrastrutture) e nel 2014 hanno incassato 278 mila euro di contributi pubblici.
Il tesoro del Pci e quello della Fiamma
Ugo Sposetti era il luciferino tesoriere dei Democratici di sinistra. Un bel giorno ha tracciato una linea: “Nasce il Pd? Bene. Questo è il Partito democratico. Questo invece è quello che c’era prima”. Quello che c’era prima, ça va sans dire, nel Pd non ci doveva entrare. Stiamo parlando del famoso tesoro dei Ds, il patrimonio accumulato dal Pci e tramandato in linea di successione ai suoi eredi politici. Pd escluso: al momento della fusione con la Margherita, nel 2007, Sposetti ha trattenuto le risorse del vecchio partito e le ha blindate in una sessantina di fondazioni. Si parla di oltre 2000 immobili tra vecchie sedi, appartamenti e palazzi di pregio. Centinaia di quadri e volumi di valore. Una stima complessiva di almeno mezzo miliardo di euro. A chi gliene chiede conto, Sposetti risponde sempre allo stesso modo, ridanciano, aguzzando il baffetto: “Quale tesoro? I Ds erano pieni di debiti”.
Un anno fa, per conto di Palazzo Chigi, l’Avvocatura di Stato e l’Agenzia delle Entrate si sono messe al lavoro per valutare l’entità del patrimonio rosso: Renzi vorrebbe mettere le mani sul tesoro (anche perché la presidenza del Consiglio ha ricevuto decreti ingiuntivi per 95 milioni a causa di un vecchio salvataggio de l’Unità, nel ‘98). Per ora, tutto tace.
Quella del Movimento Sociale Italiano è una storia molto simile. La fortuna dei missini è stata trasferita ad Alleanza nazionale. Un patrimonio da 180 milioni di euro, bloccato proprio nella fondazione di An. Fanno gola a molti: la “generazione dei quarantenni” – appoggiata da Fini, Alemanno e Menia – vorrebbe usarli per far rinascere un partito unico della destra. I vecchi colonnelli (Gasparri, Matteoli, La Russa, Meloni) si oppongono. A ottobre l’ultima assemblea ha sancito lo stallo. I tesori della Prima Repubblica, rossi e neri, sono congelati, come a voler fermare il tempo.
Da Gramsci e Alcide a Boschi e Rotondi
Ad aspirare le ultime briciole sul tavolo non ci sono solo vecchi partiti, ma pure qualche quotidiano superstite. Non è il caso de La Padania: nonostante la Lega goda di ottima salute – e nonostante 60 milioni di euro di contributi pubblici incassati in 17 anni – il giornale ha cessato le pubblicazioni a novembre 2014.
L’Unità è tornata in edicola la scorsa estate dopo un anno di blackout. Continuerà a godere dei fondi statali: l’ultima tranche (2014) è stata di 1,8 milioni di euro.
Una menzione speciale, infine, la merita La Discussione, il quotidiano fondato nel 1952 da Alcide De Gasperi. Oggi, più modestamente, è il giornale di Giampiero Catone e della “Rivoluzione Cristiana” di Gianfranco Rotondi. Dal 2013 la direzione editoriale è affidata ad Emilio Fede. Incassa ogni anno generosi assegni pubblici, l’ultimo di 460 mila euro.