Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 23 Lunedì calendario

Cannes si è venduta al glamour?

«Il Festival di Cannes ha perso l’anima?», si chiede il Parisien in prima pagina. E gli indignati speciali di Libération, qualche giorno fa, chiudevano un indignatissimo editoriale citando Guy Debord: «Le spettacolo è il momento in cui la merce è arrivata all’occupazione totale della vita sociale».
Totale forse no ma, a detta degli habitués accampati sulla Croisette dai tempi in cui la Nouvelle Vague era nuova, mai come quest’anno si è vista la presenza della «marchandise», i grandi marchi della moda e del lusso. Onnipotenti, onnipresenti, onnivori. Certo, per due settimane Cannes diventa la vetrina più vista del mondo, il cinema è glamour per definizione, la Francia si vuole patria del lusso, le top model sono sempre un bel vedere: pare naturale che le griffe facciano da padrone di casa (anche perché, e in Italia ci sarebbe solo da imparare, mezzo bilancio del Festival arriva dagli sponsor).
Ma, come diceva saggio il suo ex patron di lunghissimo corso, Gilles Jacob, Cannes era quel posto unico che metteva d’accordo sia i lettori dei Cahiers du Cinéma sia quelli di Gala, insomma i cinefili puri e duri, interessati solo all’arte, e il resto pettegolo del mondo, interessato principalmente a sapere con chi vanno a letto le star e, una volta uscitene, come sono vestite.
L’impressione è che questo delicato equilibrio si stia squilibrando, e naturalmente sul versante modaiolo. Prendi l’arte e mettila da parte? No, per carità, Cannes è ancora la vetrina del cinema mondiale, di tutto, da Hollywood alla Corea passando perfino per l’Italia. Ma adesso la griffe graffia di più, dilaga in tutti gli spazi, scippa attenzione e copertine e flash ai film. La patatina sta diventando più importante del pollo arrosto.
E infatti ogni diva viene presentata come testimonial o musa o egeria (a seconda della cultura classica del giornalista) della maison di turno, ogni evento, dalla festa al dibattito, è rigorosamente sponsorizzato e Dior fa sapere di aver collaborato con Almodovar per abbigliare Michelle Jenner in Julieta. L’ordine d’apparizione sulla Montée des marches prevede prima le top model, poi il cast del film, infine gli altri cinematografari. I fotografi, professionali o amatoriali, si avventano più su Kim Kardashian, Irina Shayk, Bella Hadid e altre famose per essere famose o, nel caso della Kardashian, formose, che sulle attrici.
L’altro giorno, il dinosauro veteromarxista Ken Loach s’aggirava per la Fnac solo soletto (e per nulla glamour): e nessuno se lo filava. L’avesse fatto una top delle più celebrate, si sarebbe dovuta chiamare la Gendarmerie, se non altro perché si sarebbe subito bloccato il traffico.
La tendenza arriva fino al paradosso. Il tema della parità di genere autoriale (tradotto dal politicamente corretto: il fatto che ci sono molti più registi uomini che donne), assai sentito a Cannes dopo le polemiche violentissime del 2013 quando in concorso non ci fu nemmeno una regista, è stato trattato a «Women in Motion», una serie di incontri anche molto interessanti organizzati dalla Kering, multinazionale del lusso che vive e prospera sull’immagine delle donne.
E in uno dei film in concorso, Personal Shopper di Olivier Assayas, premiato per la regia, c’è Kristen Stewart il cui lavoro consiste nell’andare in giro per negozi. La stessa Stewart, consacrata a questo Cannes come nuova regina del glamour, è sotto contratto con Chanel, il cui marchio nel film è onnipresente. Per Assayas, si tratta di una riflessione sulla moda come «estremo del materialismo contemporaneo». Per altri, di una marchetta.