CorrierEconomia, 23 maggio 2016
Uber cinese, Apple pay e iCar. Tim Cook non vuole più dipendere da un cellulare e ora punta tutto sui servizi
A prima vista l’investimento da 1 miliardo di dollari di Apple nella società cinese Didi Chuxing sembra legato solo al progetto della iCar, l’automobile elettrica e (forse) a guida autonoma su cui stanno lavorando «segretamente» mille ingegneri a Cupertino e dintorni. In realtà la «Piccola arancia tecnologica» – questo il significato del nome ufficiale di Didi, in omaggio al marchio della Mela – significa molto di più per la strategia dell’amministratore delegato (ceo) Tim Cook. Didi in Cina è l’app più usata per chiamare un taxi dallo smartphone, quindi l’enorme mole di dati raccolti sul modo di usare le quattro ruote da parte dei suoi clienti e degli autisti della sua rete sara’ prezioso per chi alla Apple sta lavorando sull’automobile del futuro. Ma l’alleanza può anche avere anche un impatto immediato per i conti della Mela, che nell’ultimo trimestre hanno sofferto.
I dettagliNon è stato spiegato quale tipo di collaborazione si svilupperà fra Didi e Apple, un’ipotesi però è che la app cinese venga integrata con Apple Pay, il sistema di pagamenti digitali disponibile sugli iPhone anche in Cina. E quello potrebbe essere solo l’inizio per l’offerta di altri servizi di ecommerce mobili: gli autisti di Didi potrebbero per esempio – come fanno quelli di Uber in alcune città americane – consegnare a domicilio i pasti preparati da ristoranti e le transazioni potrebbero sempre avvenire attraverso Apple Pay. L’affare con Didi quindi serve a Cook per allargare l’ecosistema di Apple in Cina e fare un passo in avanti nella diversificazione strategica del suo business globale verso i servizi, per dipendere sempre meno dalle vendite dell’iPhone in una fase in cui il mercato degli smartphone è quasi saturo e comunque cresce al rallentatore anche nei Paesi emergenti. La transizione è già iniziata, come si vede dall’ultimo bilancio trimestrale di Apple, quello chiuso a fine marzo. Le vendite dell’iPhone generano ancora il 65% di tutte le entrate, ma i servizi sono diventati la seconda voce più importante, prima dei personal computer Mac e dei tablet iPad: hanno realizzato 6 miliardi di dollari, il 12% di tutto il fatturato trimestrale.
Uno dei servizi è appunto il portafoglio digitale Apple Pay, con cui dall’iPhone si può pagare anche la spesa in molti negozi. L’introito più ricco viene dall’App Store, il cui fatturato è cresciuto del 35% nei primi tre mesi di quest’anno: è la piattaforma online da cui gli utenti scaricano le applicazioni e Apple trattiene 30 centesimi per ogni dollaro incassato dagli sviluppatori delle app. Poi c’è il negozio iTunes su cui si comprano libri e film in versione digitale; il servizio iCloud per immagazzinare nella nuvola foto e qualsiasi altro bene digitale; e l’ultimo nato è Apple Music, l’abbonamento (a 10 dollari o euro al mese) per ascoltare musica in streaming, che finora è stato sottoscritto da circa 13 milioni di persone.
La base di potenziali clienti di questi servizi è enorme: oltre 1 miliardo di persone nel mondo possiede apparecchi Apple, dai Mac agli iPad agli iPhone. E sono clienti che spendono molto di più di quelli che usano gli smartphone e i tablet basati sul sistema operativo Android di Google. Il valore di questo business è sottostimato dagli investitori, secondo l’analista di Credit Suisse Kulbinder Garcha: lui calcola che oggi un utente dei servizi Apple spende in media 61 dollari l’anno e che questa cifra quasi raddoppierà entro il 2020, arrivando a 113 dollari. Se queste proiezioni si materializzano, entro quattro anni i servizi rappresenteranno ben il 30% dei profitti totali di Apple. Chi sembra averlo capito in anticipo sugli altri è Warren Buffett, il guru degli investimenti value, cioè in aziende sottovalutate rispetto al loro valore intrinseco.
La mossaLa sua holding Berkshire Hathaway ha rivelato la settimana scorsa di aver comprato azioni di Apple per un miliardo di dollari. E si capisce perché: fra le caratteristiche dell’azienda di Cupertino che possono piacere a Buffett c’è proprio il forte e prevedibile flusso di liquidità generato dai servizi, oltre al fatto che il crollo del 25% delle sue quotazioni negli ultimi 12 mesi le ha rese molto attraenti. Infatti il loro prezzo è solo dieci volte tanto i profitti per azione, contro un rapporto di 17 per l’intera Borsa americana; e il rendimento offerto dai generosi dividendi di Apple è del 2,4%, superiore a quello dei titoli decennali del Tesoro Usa.
Un altro possibile motivo per la partecipazione di Apple nel capitale di Didi è politico, ma sempre legato al nuovo focus sui servizi. Lo scorso mese le autorità cinesi hanno chiuso i negozi online di Apple che da soli sei mesi vendevano film e libri digitali. «Pechino è interessata a proteggere i contenuti che i cinesi possono vedere e a favorire i giganti tecnologici locali come Huawei, Alibaba e Tencent», ha spiegato Daniel Rosen, partner della società di consulenza newyorkese Rhodium Group, specializzata sull’economia cinese. Un misto insomma di censura e protezionismo. Il finanziamento e il supporto a una startup cinese quindi può servire a Cook anche per ingraziarsi i dirigenti comunisti di Pechino e rilanciare a 360 gradi la sua offerta di servizi sul mercato che, dopo gli Stati Uniti, è il maggiore per la Mela.