La Stampa, 23 maggio 2016
Che aria tira a Torino a due settimane dal voto
Nessuno gli contesta un’onestà personale confermata da quarant’anni di attività politica senza l’ombra di scandali o sospetti. Nessuno gli disconosce una competenza professionale collaudata anche in posizioni nazionali di grande responsabilità. Nessuno può dubitare di un proverbiale suo impegno totale nello studio dei problemi di Torino, tipico, del resto, di una mentalità da «primo della classe». Nessuno gli può negare una solida autorevolezza nel confronto con i partner istituzionali di un sindaco, a cominciare da quelli governativi, ottenuta attraverso lunghe esperienze e lunghe conoscenze, anche internazionali, al massimo livello. Pure se nessuno può negare che abbia un cattivo carattere, perché ci dovrebbero essere dubbi sulla riconferma di Piero Fassino alla guida di Torino per altri cinque anni?
Elezioni senza suspence, dunque, quelle di domenica 5 giugno? Non proprio. Anche se il pronostico è largamente dalla sua parte, il sindaco uscente, se non riuscirà ad arrivare subito al traguardo della maggioranza assoluta dei voti, dovrà sottoporsi a un ballottaggio insidioso, perché dietro la sua probabilissima sfidante, la pentastellata Chiara Appendino, si cela un sentimento diffuso e inafferrabile, persino senza motivazioni razionali, quello di una voglia di cambiamento che non guarda né a meriti passati, né ad alternative che promettano maggior fiducia. Un sentimento alimentato né da volti particolarmente carismatici, né da promesse elettorali particolarmente allettanti, ma capace di raccogliere un’armata composita e del tutto inedita di malumori, paure, risentimenti, esclusioni. Insomma, una potenziale e temibile protesta contro quella parola inglese che anche i subalpini meno internazionali hanno imparato a pronunciare con un certo astio: «l’establishment».
Ecco perché le elezioni a Torino possono costituire un test molto interessante per valutare quanto sia profonda, anche in quel Nord Ovest che più ha sofferto la crisi, per la specifica struttura della sua economia, la rivolta contro un «establishment», appunto, a cui si rimprovera, innanzi tutto, una permanenza al potere che sfiora il quarto di secolo. Del tutto legittimata, peraltro. da ripetute prove elettorali che hanno sempre visto vincente il centrosinistra e motivata anche dalle divisioni e da una sostanziale inconsistenza del centro destra torinese, ma percepita, comunque, come una pervasiva e immutabile occupazione delle «solite facce» nei centri decisionali della città.
In fondo, si potrebbe dire che pure Torino sia contagiata da quel sentimento-risentimento che sta dilagando in tutto il mondo occidentale in questi primi anni del nuovo secolo. Quello che, dall’altra parte dell’Atlantico, spinge Bernie Sanders contro l’algida professionalità politica di Hillary Clinton e fa volare imprevedibilmente il magnate Donald Trump contro la tremebonda struttura istituzionale del partito repubblicano. Quello che solleva larga parte dei popoli dell’Est Europa contro Bruxelles, nell’assoluto disconoscimento degli straordinari contributi finanziari concessi, dopo la caduta del Muro, per la ripresa economica di quei Paesi proprio dalle istituzioni comunitarie europee.
È evidente che a Torino quella voglia di cambiare, a tutti i costi e senza guardare troppo all’affidabilità delle alternative, trovi più difficoltà a contestare l’operato di un’amministrazione che, in un periodo di profonda crisi economica e di acuta mancanza di risorse finanziarie, è riuscita a far quadrare i conti molto traballanti del Comune con la sostanziale permanenza dei servizi, almeno quelli essenziali, per i cittadini. Al punto tale che una parte del vecchio centrodestra torinese, guidato dall’ex presidente regionale Enzo Ghigo e dal leader centrista Michele Vietti, ammette che fosse davvero arduo fare meglio di Fassino nelle condizioni in cui il sindaco si è trovato in questi anni e dichiara di sostenere la sua rielezione.
Fuori causa, per l’eventuale ballottaggio, l’attuale destra torinese che è riuscita nell’impresa di dividersi in almeno tre parti, i sostenitori del sindaco uscente valutano con molta preoccupazione la diaspora con la sinistra radicale, guidata dall’ex sindacalista della Fiom, Giorgio Airaudo. Temono, infatti, che la sua lista tolga proprio quella percentuale di voti che costringerebbe Fassino alla sfida del secondo turno con la leader del «Movimento 5 stelle», la bocconiana Appendino. I ricordi di quella spaccatura a sinistra che consentì al forzista Toti di vincere la partita per la presidenza della Regione Liguria sono appena di un anno fa e agitano ancora i sonni di chi sospetta che, anche nella capitale subalpina, le sorprese non si possano escludere.