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 2016  maggio 23 Lunedì calendario

L’uccisione di Mansour Akhtar si ritorce contro l’occidente. Ora l’Isis può espandersi in Afghanistan

All’inizio dello scorso mese, i Taliban hanno annunciato l’avvio dell’annuale offensiva di primavera. È un rituale che va avanti da più di vent’anni, da quando venne fondato il movimento, nel pieno della guerra civile. Gli alti comandanti Taliban hanno detto ai giornalisti che il loro obbiettivo era schierare un numero di combattenti più ampio per tenere le aree conquistate negli ultimi anni di campagne militari, espandere le zone sotto il loro controllo e continuare a minare il fragile governo del presidente Ashraf Ghani; e anche per respingere la sfida alla loro leadership proveniente da quelle fazioni, all’interno della guerriglia, che hanno giurato fedeltà allo Stato islamico.
Ora, però, i Taliban hanno subito un colpo pesante: la morte del leader, il mullah Mansour Akhtar, in un attacco condotto da un drone americano sul versante pachistano della frontiera. Come sempre, ogni volta che viene ucciso un esponente di primo piano di un gruppo estremista violento, le conseguenze si ripercuoteranno nella regione e oltre.
È scontato che avrà un impatto rilevante per i Taliban stessi. La scelta di Mansour come nuovo leader risale appena al luglio scorso, quando il movimento fu costretto ad ammettere che il mullah Omar, fondatore e capo indiscusso dei Taliban, era morto da due anni. I Taliban sono sempre stati una coalizione approssimativa di fazioni più che una forza unita e disciplinata, e Mansour ha dovuto faticare parecchio per imporre la sua autorità. Sotto l’influenza, probabilmente, dei potentissimi servizi segreti militari pachistani – l’Isi – era stato raggiunto un accordo che assegnava al figlio e al fratello del mullah Omar importanti ruoli di comando. Altri comandanti dissidenti si sono pian piano rimessi in riga (e alcuni che si erano schierati con lo Stato Islamico sono stati uccisi).
L’uomo che potrebbe succedere a Mansour è Maulvi Haibatullah Akhundzada, veterano della prima ora, giudice temutissimo durante gli anni ‘90 e rispettato studioso. È originario dell’Afghanistan sudorientale, la culla del movimento Taliban, e le sue credenziali tribali e religiose potrebbero essere argomenti convincenti per tanti, nel movimento. Attualmente, è uno dei due vice.
L’altro è Sirajuddin Haqqani, anche lui potenziale aspirante alla leadership. Dirige la rete Haqqani, un gruppo indipendente di combattenti islamici nato durante la guerra contro l’Unione Sovietica degli anni ‘80. Questa rete può contare su una base di potere che valica la frontiera fra Afghanistan e Pakistan e si è progressivamente avvicinata ai Taliban negli ultimi vent’anni. Sirajuddin, che ha poco più di quarant’anni, rappresenta una nuova generazione, ha contatti con importanti finanziatori nel Golfo (si ritiene che sia figlio di una kuwaitiana) ed è collegato a decine di attentati e attacchi, nell’ultimo decennio, contro obiettivi legati ai governi occidentali, all’India e al governo afgano.
Le autorità di Kabul dicono che Sirajuddin, da quando è diventato uno dei due vice di Mansour, è riuscito a crearsi un’importante autorità militare e base di consenso. Se diventasse il leader dei Taliban, sancirebbe di fatto la fusione tra la sua rete in Pakistan e il movimento principale in Afghanistan, creando una forza nuova e potenzialmente molto più efficace, che rappresenterebbe una sfida molto seria per il debole esercito afgano.
Sembra tuttavia improbabile che i Taliban riescano a evitare una prolungata battaglia intestina per la successione, che metterebbe a rischio la capacità militare del movimento e scatenerebbe spargimenti di sangue interni. Tutto ciò potrebbe, in prospettiva, riportare i Taliban al tavolo delle trattative. Una frammentazione simile rischia però di consentire all’Is di stabilire una testa di ponte nel paese. Finora lo Stato islamico non ha lesinato sforzi per affermare una presenza in Afghanistan, ma è riuscito ad attirare dalla sua parte solo una manciata di comandanti di seconda fascia. È probabile che ora le cose cambieranno.
Un’espansione dell’Is in Afghanistan sarebbe uno sviluppo inquietante. I Taliban non sono mai stati coinvolti direttamente in attacchi terroristici al di fuori del paese. Anche se hanno dato rifugio a Osama Bin Laden e ad Al Qaeda quando erano al potere, prima che la coalizione a guida Usa li spodestasse nel 2001, i rapporti tra gli estremisti (in larga maggioranza arabi) consacrati alla jihad globale e la milizia ultraconservatrice afgana sono sempre stati tesi. Anche se successivamente il mullah Omar si era avvicinato ai vertici di Al Qaeda, i Taliban sono sempre rimasti concentrati su obiettivi prevalentemente locali. Anche il mullah Mansour Akhtar non mostrava alcun interesse reale a colpire fuori dai confini afgani.
Se invece l’Is riuscisse a insediarsi in Afghanistan, cercherebbe di usare il paese come base per attentati internazionali, esattamente come ha fatto con la Siria negli ultimi anni. La minaccia potrebbe ingigantirsi anche se fosse Sirajuddin Haqqani a prendere la guida del movimento. Il giovane combattente potrebbe essere più adatto dell’anziano rivale per raccogliere la sfida militare dello Stato islamico, ma la rete Haqqani da molto tempo offre rifugio e supporto a esponenti del jihadismo internazionale, di Al Qaeda come di altre fazioni che prendono di mira Stati Uniti ed Europa. Combattenti islamisti inglesi, belgi, tedeschi e francesi sono venuti in queste aree montagnose lungo il confine del Pakistan controllate dagli Haqqani per addestrarsi insieme ai gruppi che hanno qui la base; Mohammed Merah, che nel 2012 uccise sette persone in Francia, è un esempio in tal senso.
Stiamo attraversando una fase di forte instabilità all’interno del movimento globale dell’estremismo islamico. Sono in corso feroci lotte di potere tra fazioni in Yemen, in Somalia, in Siria, in Afghanistan, in Pakistan e altrove. È indubbio che l’Is ha subito pesanti battute di arresto in alcuni teatri chiave, ma in altri continua a espandersi. Al Qaeda, che veniva considerata irrecuperabilmente indebolita, ha dimostrato una sorprendente capacità di resistenza con gli attentati nel Sahel e altrove. Il caos fra i jihadisti rispecchia il caos del contesti in cui operano. L’uccisione del mullah Mansour accresce questo caos. Potrebbe indebolire i Taliban, aumentando le divisioni al loro interno e aiutando sul piano militare e politico il traballante governo di Kabul. O forse no. Come tutti gli omicidi di questo tipo, è un azzardo calcolato, l’ennesimo lancio di dadi in una guerra interminabile.