La Stampa, 22 maggio 2016
Ricordi di un vecchio tipografo raccolti dalla figlia giornalista
Sono entrata per la prima volta a La Stampa di via Roma a Torino che avrò avuto sei mesi, in braccio a mio papà tipografo. Andammo nel suo regno, al primo piano: un regno nero, profumato d’inchiostro e di metallo, rumoroso, con il «clic clic» delle linotype che eruttavano caratteri, parole, concetti.
Mio padre, Pino Comazzi, ha 93 anni, sta bene fisicamente ma soprattutto è più lucido di me. Ha lavorato a La Stampa dal 1951 al 1981. Ha vissuto il passaggio allo stabilimento di via Marenco nel 1968 e il passaggio dal piombo alla fotocomposizione, nel 1978, quando cambiò il Papa e lui faceva la prima pagina. Continua ad amare l’arte tipografica che si vanta di aver appreso alla scuola salesiana.
1951: come si lavorava, allora?
«Lavorare là era bellissimo. Era bella anche la passeggiata che facevo per andare al giornale. Abitavo vicino a via Sacchi: e dunque portici. Con il sole e con la pioggia era sempre un cammino felice. Il mio turno è stato a lungo dalle 22 alle 4 del mattino, i giornali chiudevano molto tardi. E l’aria della città all’alba rinfrescava la mente. Ti sentivi diverso dagli altri, e quella diversità dava gioia».
Quali erano i rapporti con i giornalisti?
«Stavano dall’altra parte del bancone: tra noi la balestra di piombo, dove si creava la pagina. Era un assoluto lavoro d’équipe. I redattori arrivavano in tipografia la sera, con i menabò, quattro righe in croce, apertura, spalla, tagli alti, tagli bassi. E si inventava. Non c’era uno standard unico di corpi e di caratteri: si andava di fantasia e di regole tecniche, il carattere sempre più piccolo a mano a mano che si discendeva nella pagina. Con l’«egiziano», per esempio, ci stavano tantissime parole, strette strette. E se gli articoli, che arrivavano in pacchetti di piombo legati con la corda, erano più lunghi del dovuto, si tagliavano al momento. Se più corti, ci mettevamo le interlinee, spazi bianchi tra una riga e l’altra».
Quante pagine aveva il giornale?
«Poche, negli Anni 50 una ventina, che poi andarono aumentando. Ricordo che quando facemmo le quaranta pagine ci fu una festa pazzesca in tipografia, mangiavamo pane e salame e bevevamo whisky. Io, poi, che non lo bevo mai».
Festeggiavate molto?
«Altroché! Ogni occasione era buona, forse era anche per via degli orari. Facevamo merenda sui banconi neri, d’estate non mancava mai l’anguria».
Maggior soddisfazione?
«Aver trovato il carattere giusto per Specchio dei Tempi, che si usa ancora adesso, era un taglio basso, ma il titolo doveva essere grande. Insomma, scelsi il carattere 28 Paolino».
Redattori?
«Il primo redattore capo che ricordo era il cavalier Giordano. Poi il professor Martinotti, che divenne vicedirettore. Ricordo Giovannini che giocava con le sedie dello stabilimento nuovo. Ricordo Mario Salvatorelli, il capo di quella che allora chiamavano Borsa, adesso Economia. Era iracondo, bestemmiava come un turco. Una volta mi misi a urlare anch’io, una gran lite. Lui era però un redattore straordinario. Preciso alla riga nel tagliare i pezzi, rispettoso delle regole tipografiche. Mai avrei tollerato di andare con un righino in testa (poche sillabe a inizio riga, il resto bianco, n.d.r.), e lui metteva il testo a posto. E Mirella Appiotti? Fu lei che sperimentò la critica televisiva, prima ancora di Buzzolan. Avemmo una piccola disputa per un titolo a una colonna: “Quelli del cioccolato”. Le righe dovevano essere uguali, ci lavorai tanto, alla fine lei mi portò una barretta di cioccolato. Luca Bernardelli mi regalò una cravatta che mi piaceva e disse: “Te la do, ma solo dopo che ho salutato il direttore. Che ovviamente era De Benedetti, grande e terribile».