La Stampa, 20 maggio 2016
Quattro chiacchiere su banche e politica con uno dei candidati alla guida di Unicredit, Sergio Ermotti
«Portare i tassi d’interesse così in basso era un atto dovuto, bisognava provarci. Ma oggi, mentre la Banca centrale europea continua con la sua politica monetaria espansiva i governi non fanno le riforme necessarie. Dunque insistere nella stessa direzione è una sorta di accanimento terapeutico». Per trovare un grande banchiere che parla italiano ma non ha timori reverenziali nei confronti della Bce di Mario Draghi, bisogna varcare il confine e arrivare a Lugano. Sede discreta del colosso svizzero Ubs, una fila di salottini riservati per i clienti che contano. In uno di questi, al quinto piano, ci riceve Sergio Ermotti, 56 anni, ticinese e milanista, un passato in Unicredit, un presente da Group Ceo «della banca meglio patrimonializzata al mondo», come la definisce lui dall’alto di un coefficiente patrimoniale al 14%.
Partiamo proprio da Unicredit. Tra i possibili successori all’attuale ad Federico Ghizzoni si fa anche il suo nome. È candidato, dottor Ermotti?
«Ho un ricordo molto bello di Unicredit, ma devo dirle che sono molto contento dove sono oggi. Per uno svizzero come me, che ha lavorato in banca fin da giovane, Ubs è il massimo. Tornando a Unicredit mi spiace solo che il progetto che con Alessandro Profumo avevamo cercato di mettere in piedi – la prima realtà italiana con una rilevanza davvero europea – non sia andato del tutto in porto».
Se le banche nel mondo soffrono, quelle italiane soffrono di più. Perché?
«Il fatto che le imprese italiane siano state e siano eccessivamente dipendenti dal sistema bancario è noto e la crisi economica ha portato la situazione in un vicolo cieco. Ma per troppo tempo, durante la crisi – e non parlo solo dei gruppi più grossi – le banche italiane hanno pensato di essere virtuose e immuni da qualsiasi problema. La sovraccapacità del sistema bancario, la crisi dell’economia, la pressione regolamentare, tutto ha contribuito ad appesantire il settore».
Il fondo Atlante riuscirà a sbloccare la situazione pesante dei crediti deteriorati negli istituti italiani, facendo partire un vero mercato delle sofferenze?
«È un esperimento che si spera possa dare i suoi frutti. Stiamo a vedere, ma per farlo diventare una reale via d’uscita bisogna capire chi assorbirà davvero le perdite. Chi investe vorrà rendimenti alti per affrontare investimenti rischiosi».
Parliamo d’Europa. Dove siamo oggi?
«L’Europa non riesce a uscire dal suo impasse, che è chiaramente strutturale e non ciclico. Chi oggi parla ancora di crisi finanziaria o dei suoi strascichi non dice il vero».
Come si affronta la crisi europea e il rischio di un’uscita della Gran Bretagna?
«Premesso che da svizzero penso ovviamente che il popolo è sovrano, se la Gran Bretagna dovesse decidere di uscire sarebbe un grande trauma per l’Europa. Ma come tutti i traumi potrebbe anche avere un risvolto positivo. Serve un piano B nel caso che Londra esca, e non si può certo pensare di continuare con un membro dell’Europa in meno. Dal mio punto di vista oggi è utopico pensarlo, ma un domani, a un’Europa subordinata ai governi nazionali potrebbe sostituirsi un’Europa più forte, sul modello federale svizzero o statunitense».
La politica monetaria espansiva di Fed e Bce ha toccato il suo limite massimo o può fare di più?
«La Fed è riuscita a ottenere effetti senza mai portare i tassi in area negativa. L’Europa invece ha dato troppo peso all’azione della Bce e troppa fiducia alle promesse dei politici di far seguire qualche riforma alle politiche monetarie che da sole non possono funzionare. La medicina dei tassi non ha l’effetto desiderato ma, al contrario, crea effetti collaterali che si vedranno nel più lungo periodo. Penso che in questa situazione bisognerebbe interrogarsi più a fondo sul mandato della Bce: qual è il prezzo, non attuale ma futuro, che pagheremo per questa politica di tassi così bassi? Il sistema finanziario, quello assicurativo e anche quello pensionistico sono messi sotto una pressione enorme».
Allora che cosa fare? Dare una stretta alla politica monetaria per mettere i governi di fronte alle loro responsabilità?
«Per la Bce è molto difficile fare un passo indietro. Quello che può fare però è fermarsi: più si continua a dare la speranza di altri interventi di politica monetaria, più si permette a chi governa di prendere tempo senza assumere impegni concreti. E allo stesso modo un mondo di tassi così bassi consente ai governi di dimenticarsi il problema del debito pubblico».
Insomma, il «qualunque cosa sia necessario», pronunciato da Draghi nel luglio 2012, dovrebbero dirlo adesso i governi?
«I governanti dovrebbero dire: “Qualunque cosa sia necessario, incluso perdere il mio posto”. Li aspettano misure impopolari ma necessarie se non vogliamo che a pagare il conto siano le generazioni future. Non si può pensare di vivere più a lungo, andare in pensione prima e allo stesso tempo chiudere all’immigrazione in società che non crescono più demograficamente».
Ma stringere sui tassi d’interesse oggi significherebbe frenare ancora la congiuntura.
«Non bisogna occuparsi della congiuntura a sei o nove mesi, ma della fiducia nel lungo periodo. Servono misure che spingano gli investitori a decidere di muoversi, e a mettere i loro soldi in un progetto. Sono riforme che tutti conosciamo: in Italia la più importante è quella della giustizia».
Ubs è uno dei 29 istituti «sistemici» al mondo, di quelli «troppo grandi per fallire»...
«La verità è che le banche europee sono quasi sempre troppo piccole per sopravvivere. Stanno diventando irrilevanti dal punto di vista globale, mentre quelle americane continuano ad avere una grande forza. Gli istituti asiatici stanno crescendo invece molto. Per le banche europee serve una riforma».
Che come al solito sarà una deregulation. Meno vincoli – dite voi banchieri – e cresceremo di più.
«Non una deregulation, ma una equa regolamentazione che consenta ai soggetti di competere a livello globale. In Europa vuol dire spingere sulla specializzazione e creare un vero mercato unico bancario».
Nei primi tre mesi del 2016 UBS ha visto calare l’utile del 64%. Il vostro modello che avete riconvertito dall’attività di banca d’affari a quella di gestore globale di ricchezze perde colpi?
«No, risente come tutti di condizioni economiche difficili, ma la nostra strategia non cambia: sia perché facciamo comunque meglio dei nostri concorrenti, sia perché ci basta una piccolissima variazione delle condizioni economiche per tornare a utili più soddisfacenti. Oggi è il momento di insistere e non di abbandonare».