Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2016
Perché il Venezuela è affondato
È stata senz’altro la mediazione di papa Bergoglio se, dal dicembre 2014, è avvenuta una svolta nelle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti, dopo trentatré anni segnati da una radicale contrapposizione fra l’Avana e Washington. Ma se questa sorta di Muro esistente al centro dell’emisfero occidentale, che pareva incrollabile, s’è infine infranto, seppur non ancora sul piano politico-ideologico, ciò è accaduto anche perché, con la scomparsa nel marzo 2013, di Hugo Chávez, il regime di Fidel e Raúl Castro non ha più potuto contare, come in passato, su un largo e sicuro sostegno economico di Caracas.
D’altro canto, il sistema autoritario instaurato nel dicembre 1998 dall’ex colonnello dei parà sta adesso vacillando dopo che il Paese latino-americano è stato duramente colpito dal crollo dei prezzi petroliferi.
Per lungo tempo il fatto che Chávez si fosse proclamato l’erede ideale della “rivoluzione bolivarista” (sebbene la sua avventura politica non avesse nulla a che vedere con l’impresa del “Libertador”) aveva portato il “caudillo rosso” a considerarsi l’alfiere di un “nuovo socialismo del ventunesimo secolo”, che consisteva in realtà in un miscuglio di populismo demagogico e ipernazionalismo. E perciò ad ergersi anche a paladino del regime castrista cubano, in nome di una causa comune per il riscatto delle masse popolari più diseredate e la lotta contro “l’imperialismo yankee”. A loro volta i dirigenti cubani, ben sapendo che il carisma di Fidel non sarebbe stato offuscato dal leader venezuelano, avevano tutto l’interesse, essendo rimasti privi dopo il 1991 degli aiuti di Mosca, non solo a essere soccorsi dai petrodollari di Caracas ma a veder crescere un’altra spina al fianco degli Usa.
Fatto sta che Chávez aveva consolidato man mano il suo potere: sia perché i suoi avversari avevano compiuto nel 2002 un tentativo di golpe da operetta ed erano poi usciti sconfitti da un referendum popolare per detronizzarlo; sia perché, disponendo di cospicui mezzi, aveva varato una trafila di provvedimenti assistenziali a favore del proletariato urbano, definendosi perciò, nei suoi alluvionali show televisivi, “un apostolo di Cristo, suo Comandante in capo”.
D’altronde, con le quotazioni del greggio alle stelle, aveva seguitato ad avere buon gioco nell’abbagliare le masse e nel tagliare l’erba sotto i piedi di un’opposizione sempre più confinata in un angolo: sino al punto di non celare più le sue propensioni cesariste, con un Parlamento sempre più composto da deputati a lui devoti e l’avocazione a se stesso persino delle prerogative della Banca centrale. Inoltre, dopo aver posto i sigilli agli ultimi organi d’informazione critici nei suoi riguardi, era giunto nel 2007 a nazionalizzare le società elettriche e di telecomunicazioni e trasferito allo Stato il controllo della maggioranza azionaria delle joint-venture con varie multinazionali operanti nell’area petrolifera dell’Orinoco.
A ogni modo, Chávez non aveva accantonato certe sue promesse mirabolanti anche quando s’erano avvertiti, dopo la Grande crisi del 2008, i primi segnali di un deprezzamento dell’“oro nero”; né ridotto, in nome della “nuova guerra fria” (come amava dire) contro “il Golia del Nord”, i sussidi ai “fratelli rivoluzionari” cubani. Perciò, ancor prima della sua scomparsa di scena, il “socialismo con la benzina” aveva mostrato la corda.
Oggi quello che era uno dei Paesi più ricchi dell’America Latina, essendo il quinto esportatore di petrolio al mondo, risulta ormai in ginocchio, vittima anche di una catena di spese pubbliche a destra e a manca che hanno finito per svuotare le casse dello Stato. Alle prese con una crisi devastante, il governo ha imposto nei dieci Stati più popolosi del Venezuela un ulteriore drastico razionamento dell’elettricità, con pesanti ricadute sull’attività produttiva, e una riduzione del lavoro dei dipendenti pubblici a soli due giorni alla settimana; mentre nelle città sta manifestandosi una penuria dei generi di prima necessità. Senonché il presidente Nicolás Maduro, malgrado la maggioranza del Parlamento sia passata dal dicembre 2015 all’opposizione, può ancora contare, in base all’ “autocrazia democratica” instaurata dal suo predecessore, sul controllo governativo della Corte suprema che ha respinto finora la richiesta di una riduzione del suo mandato a palazzo di Miraflores.