La Stampa, 20 maggio 2016
In Italia ci sono più banche che farmacie
«In Italia è più facile aprire un conto corrente che comprare un’aspirina», sostiene da Londra Alberto Gallo, economista del fondo Algebris e prima di Royal Bank of Scotland. In Italia, infatti, ci sono ben 700 banche ed il nostro risulta il paese con la concentrazione di sportelli più alta del mondo occidentale. «Troppe banche», per dirla col ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, che anche ieri dalle colonne de la Stampa e tornato a sollecitare nuove aggregazioni, e troppi sportelli. Ovvero due facce dello stesso problema.
Messori: l’effetto freno
Spiega Marcello Messori, professore di economia e direttore della Luiss School of european political economy: «Il sistema bancario italiano, ancor più di quello spagnolo, ha continuato ad aumentare il numero degli sportelli anche quando il resto d’Europa e l’America li riduceva. Questo ora è un freno forte. Perché ogni aggregazione è più difficile da attuare posto che richiede una forte ristrutturazione a causa delle sovrapposizioni che sempre si verificano. In pratica da elemento di forza l’articolazione delle filiali è diventato un problema in più».
Costi più alti
Gallo ha stimato che la frammentazione del comparto, le prime 3 banche controllano solo un quarto delle quote di mercato, ed una quota di sportelli per abitante che da noi supera pure ristoranti e farmacie, abbia sovraccaricato le nostre banche di costi (e di sofferenze). In pratica su un prestito erogato con un tasso medio del 3%, tra lo 0,8 e l’1% serve a pagare i costi fissi. Di conseguenza, le banche italiane generano rendimenti tra i più bassi dell’Eurozona, al pari delle malconce Landesbank tedesche.
Spazio per aggregazioni e fusioni, come sollecita il governo, «per ritrovare efficienza e approdare ad un nuovo modello di servizi bancari», come auspica Messori, dunque ce n’è. Anche perchè bisogna guardare avanti, le nostre banche devono rafforzarsi e costruire una transizione che consenta loro di evolversi. Perché «dopo la crisi internazionale e quella europea i nostri gruppi non far finta di nulla ed uscirne con la stessa funzione che svolgevano prima». «In Italia – spiega l’economista della Luiss – abbiamo due gruppi bancari di dimensioni europea e poi altre 11 banche che la vigilanza europea definisce “rilevanti” ma che però sono molto distanziate dalle prime due. In pratica abbiamo una testa bicefala ed un corpo molto esile. Per questo – aggiunge – ci si aspettava che la riforma delle popolari producesse un processo di aggregazione: questo in parte sta avvenendo, l’unione tra Popolare Milano e Banco popolare ormai è cosa fatta, ma non sono sicuro che questo generi un effetto trascinamento».
Popolari in ritardo
E in effetti, mentre la riforma delle banche di credito cooperativo, destinate a dar vita ad una holding unica, sta muovendo i primi passi (la legge è stata approvata solo il 6 aprile scorso), a segnare il passo è proprio la riforma delle popolari, la cui legge risale invece al 25 marzo del 2015. Le 10 big del settore (Banco Popolare, Ubi, Bper, Popolare Milano, Popolare di Vicenza, Veneto banca, Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese, Popolare di Bari e Popolare dell’Etruria) avevano infatti a disposizione 18 mesi per trasformarsi in spa e quindi aprirsi meglio al mercato ed eventualmente maritarsi. Ad oggi però solo Ubi ha deliberato il cambio di modello societario mentre le altre aspettano. Cosa? «Che i Tar presso cui sono stati presentati diversi ricorsi depositino le sentenze – spiega il presidente di Assopopolari Corrado Sforza Fogliani -. Mentre è molto probabile che il ricorso presentato dalla Regione Lombardia davanti alla Consulta arrivi fuori tempo massimo, visto che l’udienza che era fissata per il 5 luglio è slittata all’autunno».