Il Messaggero, 20 maggio 2016
Ha settant’anni e non li dimostra. Breve storia del bikini
Avere settant’anni e non sentirli. Ha dato scandalo, è stato oggetto dell’immaginario erotico di generazioni di uomini, mostrando una donna emancipata che non aveva paura di esibire il proprio corpo, nonostante fossero anni di austerità, nella società, come nella moda. Il bikini raggiunge questo storico traguardo, spegnendo, quest’estate, 70 candeline e risorgendo dalle sue ceneri, come l’araba fenice, ogni volta rinnovato, in barba a coloro che lo davano per finito perché ormai, di questi tempi non fa più scalpore, e sembrava essere stato surclassato da modelli retrò rivisitati in chiave sensuale, come il classico costume intero.
In realtà, a livello iconografico, risulta che il costume due pezzi esistesse già in epoca greco-romana, come testimonia il mosaico delle fanciulle nella Villa del Casale, a Piazza Armerina, in Sicilia, in cui otto giovani donne indossavano, allora come oggi, una fascia a mo’ di reggiseno, e un’altra a sostituire l’attuale slip, scoprendo così il ventre e l’ombelico. Un qualcosa di assolutamente impensabile per l’epoca, soprattutto se si calcola che il bikini è entrato nel guardaroba delle donne più di 1600 anni dopo.
L’ORIGINELa storia della moda racconta, invece, che il 5 luglio 1946 il sarto francese Louis Réard, riprendendo il modello “atome” di Jacque Heim, lanciò sul mercato un ridottissimo costume a due pezzi, dal nome emblematico: bikini, come l’atollo omonimo che sorge al largo delle Isole Marshall, nell’oceano Pacifico, una zona calda, in cui, proprio in quegli stessi anni, gli Stati Uniti stavano effettuando una serie di test nucleari. L’effetto bomba previsto, però, non ci fu, tanto che per Réard fu molto difficile pubblicizzare il costume perché le modelle rifiutavano di indossarlo, in quanto lo consideravano eccessivamente scabroso. La sua reclame, infatti, passò nelle mani di una disinibita spogliarellista del Casino de Paris.
IL CINEMAA consacrarlo come capo iconico fu il cinema, e in primis, nel 1958, il fisico scultoreo della bellissima Brigitte Bardot nel film E Dio creò la donna. Così è diventato il simbolo della seduzione che conosciamo oggi. Rita Hayworth lo indossava con estrema femminilità, avvolgendo e mostrando le sue curve. Proprio al bikini deve il suo celebre soprannome, l’atomica. Il modello bianco indossato da Ursula Andress, alias Honey Ryder, nel 1962, in Agente 007 Licenza di uccidere, oltre a renderla indimenticabile, è stato riproposto più volte da vari brand, perché particolarmente adatto alle donne con curve audaci. Raquel Welch, con le sue forme strette nel due pezzi, era un’esplosione di sensualità, senza mai risultare volgare.
Anche le italiane del cinema, però, si difendevano, portandolo con semplicità, in modo genuino e leggero. A partire da Sophia Loren, che lo sfoggiava, nello stile tipico delle pin up dell’epoca, petto in fuori e pancia in dentro, alle forme generose della povera ma bella Marisa Allasio, che lo indossava sulle rive del Tevere, sino ad arrivare alla bellezza acerba, quasi ingenua, di una giovanissima Stefania Sandrelli in Divorzio all’italiana.GLI ANGELI
Da lì, è storia recente. Il due pezzi è simbolo di femminilità e protagonista di ogni estate. Victoria’s Secret e i suoi “angeli” lo hanno rivisitato rendendolo più adatto ai nuovi canoni estetici, anche se i corpi tonici e filiformi delle modelle spesso inibiscono la donna media, che magari, con qualche chilo di troppo, non si sente adatta a indossare costumi dalle dimensioni così ridotte. Forse si dovrebbe ritrovare la sfrontatezza degli anni in cui è uscito, quando non c’era la mania – e la fobia – della buccia d’arancia, ma le donne erano vere, fatte di carne, ossa e leggerezza, e bastava un bikini, magari un po’ meno spregiudicato, per farle sentire belle e desiderabili come le attrici di Hollywood.