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 2016  maggio 20 Venerdì calendario

L’ex generale Mori è stato assolto anche in appello. Il processo sulla trattativa Stato-mafia ha ancora senso?

L’ultimo sfogo l’ha consegnato ai giudici lunedì scorso, prima che entrassero in camera di consiglio: «È da circa un ventennio che la mia attività professionale viene messa costantemente sotto osservazione, solo però da una parte della Procura della Repubblica di Palermo, alla ricerca, sempre vana, di elementi che valgano ad attribuirmi qualche reato che metta in dubbio la mia correttezza professionale e istituzionale», ha detto l’ex generale dei carabinieri ed ex prefetto Mario Mori. Poi la recriminazione: «Mi sembra un trattamento da riservare più a un esponente della criminalità organizzata che a un rappresentante delle istituzioni statali che ha sempre operato, in ambiti diversi, e in particolare nel contrasto alla mafia, correttamente e con rispetto delle proprie funzioni».
Subito dopo la corte d’appello s’è rinchiusa per decidere e ieri ne è uscita con il verdetto: conferma dell’assoluzione di Mori e del colonnello dell’Arma Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. È un pezzo della trama della cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi che già il tribunale aveva negato tre anni fa, dichiarando innocenti gli imputati: «Il fatto non costituisce reato». Ieri il secondo grado di giudizio ha confermato quella decisione, nonostante il tentativo dei pubblici ministeri – il procuratore generale Roberto Scarpinato e il sostituto Luigi Patronaggio – di slegare la vicenda di Mori dal presunto patto occulto tra boss e istituzioni: l’ex generale non voleva favorire la mafia né siglare accordi; semplicemente, sia nei carabinieri che nei servizi segreti, ha continuato a svolgere un ruolo di depistatore e «ripulitore di prove» per inconfessabili «fini extraistituzionali». Di qui la richiesta di condanna a una pena più blanda rispetto a quella sollecitata dai pm in primo grado, ma il risultato non è cambiato: assoluzione. Con comprensibile soddisfazione di Mori: «Mi è stata restituita l’onorabilità come uomo e ufficiale dei carabinieri».
Resta il nodo della trattativa (che ha perso un altro pezzo con l’assoluzione dell’ex ministro Mannino), per la quale Mori è ancora imputato davanti alla corte d’assise. «Questo processo è un clone di quello, e l’assoluzione di oggi non potrà non avere conseguenze sull’altro dibattimento», confida l’avvocato Basilio Milio, che ha ereditato la difesa di Mori dal padre Piero, scomparso nel 2010 durante il giudizio di primo grado. Ma prima ancora, per Mori c’è stato il passaggio della mancata perquisizione del covo di Riina, per la quale pure fu accusato di favoreggiamento e definitivamente assolto, altro anello della catena che tiene insieme l’ipotetica trattativa.
Per adesso le sentenze sono andate in un’altra direzione e nonostante i sospetti e gli indizi raccolti su episodi poco chiari, non c’è ancora una ricostruzione giudiziaria univoca su ciò che è accaduto durante e dopo le stragi del 1992-1993. Restano i postumi di un’antimafia conflittuale e contrastata, che ha portato alla sbarra gli stessi investigatori che prima avevano lavorato fianco a fianco con i pubblici ministeri. Con il verdetto di ieri, la corte d’appello ha trasmesso alla Procura le testimonianze di sei carabinieri (tra cui l’ex «capitano Ultimo» che guidò l’arresto di Riina) «per le valutazioni in ordine alla sussistenza del reato di falsa testimonianza». In primo grado il tribunale fece lo stesso con i principali accusatori di Mori, l’ex carabiniere Michele Riccio e Massimo Ciancimino, ma non ci furono conseguenze.