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 2016  maggio 20 Venerdì calendario

Indagine sul caso Siviglia, capace di vincere tre Europa League di fila

L’impero spagnolo ha colonizzato il continente: per il terzo anno di fila le truppe della Liga fanno razzia d’argento. L’Europa League resta a Siviglia, la Champions viene rimbalzata fra Madrid e Barcellona, la finale di San Siro è una stracittadina, come due anni fa. Dal 2006, in 11 stagioni, sono andate in finale 8 spagnole in Champions e 9 nell’altra coppa. Il Liverpool, eliminando il Villarreal, ha evitato l’en-plein storico: quattro finaliste su quattro.
Se il dominio di Real e Barcellona affonda le radici nel blasone prima d’essere certificato da fatturati spaziali – nell’ultima Deloitte Money League sono i due club più ricchi davanti allo United —, se il cholismo ha promosso l’Atlético a giocare quattro finali in sette anni e consolidarsi terza corrente di potere, l’incredibile ascesa del Siviglia insinua un nuovo complesso d’inferiorità nel nostro calcio. Le aristocrazie dei due paesi sono lontane, solo la Juventus gioca alla pari con le grandi di Spagna. Ma è il ceto medio, ora, ad aver scavato un solco, al punto che, se pure non avesse il Real o il Barcellona, la Liga sarebbe comunque in testa al ranking. La Coppa Uefa un tempo era possedimento della Serie A: fra l’89 e il ’99, 8 successi, 14 finaliste, 4 derby conclusivi. Ora, la Spagna ha superato l’Italia nell’albo d’oro, 10 successi a 9. E lo ha fatto con la rapida manita di un club che in patria non domina di certo: il Siviglia dal 2010 non chiude fra le prime quattro, i piazzamenti recenti (5°, 9°, 9°, 5°, 5°, 7° a -32 dalla vetta) avrebbero suggerito, altrove, un clamoroso repulisti. Invece ha realizzato un nuovo modello di business, basato proprio sui risultati in Europa League, che hanno consentito al club nel 2014 di chiudere in utile il bilancio (+4,7 milioni, grazie ai 19 incassati dai premi nelle competizioni) e nel 2015 di aumentare il fatturato a 122 milioni, di cui 37,3 derivanti dal calciomercato, con un utile netto di 6,5. Anche il Villarreal con l’Europa League ha chiuso in attivo l’ultimo esercizio per 6,9 milioni.
La coppa snobbata dalle italiane è una fonte di incassi e premi, una vetrina per i giocatori (Gameiro, pagato 7,5 milioni, ora ha una clausola di 40, Bacca andò al Milan per 30). Il fatturato è lontanissimo dalla Juve e dai rossoneri, ma anche da Inter, Roma e Napoli. E, prima dell’ascesa, il Siviglia aveva una forza economica inferiore a quella attuale di Lazio e Fiorentina. Eppure, ha trovato nella coppa risorse, identità e un’altra strada per la Champions. Il capitano Coke, miglior giocatore della finale, spiega: «Giocare la Champions ha il suo fascino, ma è più importante portare a casa un trofeo». Unai Emery, il tecnico dei miracoli, rivendica che la “retrocessione” dai gruppi della Champions non è uno smacco ma un’opportunità. E anche Klopp ha difeso la sua scelta di spendere energie in questa competizione, anche a costo di rimetterci in campionato. I club italiani, da sempre, vivono i giovedì europei con fastidio, al di là di eccezioni recenti (Juventus, Napoli e Fiorentina in semifinale).
Dal 2000 il Siviglia ha lo stesso direttore sportivo, l’ex portiere Monchi, ha investito nel vivaio e costruito una rete di 16 osservatori e circa 700 suggeritori: fino a dicembre visionano partite a tappeto e classificano con una lettera gli obiettivi, a metà stagione si concentrano sui migliori. Dal vivaio sono usciti Sergio Ramos, Jesús Navas, Alberto Moreno. Sul mercato sono stati valorizzati Dani Alves, Rakitic, Baptista, Seydou Keita, Bacca, generando plusvalenze per oltre 200 milioni, 75 nelle ultime due stagioni. Che affare, la coppa.