la Repubblica, 20 maggio 2016
Gli smartphone per non vedenti. Tappa a Piombino, a margine del Giro d’Italia
PIOMBINO DESE (PADOVA)
Davide prende la nostra mano. «Vieni, adesso prova tu». Ha dita grosse e leggere. «Devi appoggiare i polpastrelli solo sulle quattro freccette, su Invio e su Esc, non ti serve altro». L’ultima cosa che guardiamo è la sua barba, poi tutto si fa buio. Chiudiamo gli occhi, e il computer comincia a parlare. Spostiamo le frecce e il sintetizzatore vocale elenca il menù del pc, scegliamo la lettura del Gazzettino di Venezia, prima pagina, avvio. La voce della macchina, morbida, non come quelle dei computer nei film, assai meno meccanica del Tom Tom, legge l’articolo. «Facile, no?».
Davide Cervellin è un cieco che produce e commercia tecnologie per ciechi. Non è un “non vedente”: è un cieco. «Anzi un orbo, alla veneta. Ognuno è quello che è, indipendentemente dall’ipocrisia e dal pietismo delle parole». È un omone di 58 anni e ne sono passati trenta da quando ha creato la Tiflosystem. «Sai come festeggio? Porto i clienti a fare un giro in elicottero sulle Dolomiti».
La sua azienda è una palazzina arancione, un festival per gli occhi. Siamo in un angolo del Padovano, Piombino Dese, anche se Davide è di Asolo: «Il mio paese è il ricordo che ho della bellezza. Sono diventato cieco a 16 anni per colpa della retinite pigmentosa, in testa ho quei portici e il verde dei prati». Figlio di contadini, Cervellin era programmatore alle Generali dove adattò i computer per chi non vedeva, smanettando con schede e cacciaviti. «Nel 1986 mi sono licenziato e con i 35 milioni di lire della liquidazione ho aperto la Tiflosystem. Qui non si fa assistenza, si progetta, si importa e si vende: non bisogna vergognarsi di dire che anche l’handicappato è un consumatore, e che i suoi bisogni danno lavoro».
Trillano aggeggi elettronici in sottofondo, suonano musichette, partono bip. Qui il mondo entra suonando. Davide ha portato in Italia il primo tablet per ciechi e il primo smartphone. Lo prende in mano: «Vedi, è quasi come il tuo, lo schermo è touch ma con la voce, i comandi sono i tasti qui sotto». Si connette a internet, manda una mail. Prende un libro, lo apre, ci appoggia lo schermo, lo fotografa. E dopo qualche secondo, lo smartphone comincia a leggere a voce alta “Opulentia sordida” di Erasmo da Rotterdam. Poi squilla un cellulare. «Ciao Andrea, sì, no, guarda, per collegarti vai a bluetooth e poi ad accessibilità». Il tablet di Andrea si era impallato. Andrea sarebbe Bocelli.
In trent’anni Davide Cervellin, quattro figli adottati in Colombia, una moglie, Lucia, persa cinque anni fa, ha dato altri occhi a 16 mila ciechi, molti dei quali bambini: il 28 agosto a Castello Tesino comincerà un corso per dieci di loro, età dagli 8 agli 11 anni. «A Padova avremo la prima scuola primaria per ciechi, non è certo una regressione, nella scuola italiana nessuno sa il braille». La Tiflosystem fattura 2 milioni di euro, importa prodotti da tutto il mondo e li traduce in italiano. «I malati che hanno diritto all’assistenza delle Asl non pagano niente».
E poi c’è Lorenzo. «Io e Davide ci siamo conosciuti in istituto, avevamo 5 anni». Lorenzo Martini, 56 anni, da uno in pensione. «Tengo corsi per i sordociechi che vogliono usare il computer». Per una vita, Lorenzo è stato responsabile tecnologie per i disabili di Banca Intesa, ne ha addestrati centinaia. «Sono cieco dalla nascita». Davide ripensa a quand’erano in collegio dalla suore: «Prima mi avevano fatto inutili punture negli occhi, poi mi portarono lì, su consiglio di un medico, perché imparassi a leggere da cieco finché un poco ci vedevo. Ma succedeva una cosa tremenda: i bambini ipovedenti venivano bendati perché fossimo tutti uguali. Ti ricordi, Lorenzo, quando ci facevano toccare il cavalluccio di gomma?» Lorenzo è un uomo alto e sorridente. Non porta occhiali, mentre Davide ha i RayBan scuri. Mostra un aggeggio rettangolare, si chiama Braille Sense: «Un tablet per ciechi con le stesse funzioni dell’iPad. La riga in basso è composta da caratteri braille e serve per leggere, invece i tasti bianchi servono per scrivere, sempre in braille, e se colleghi una tastiera possiamo dialogare. Questa macchina è un ponte magnifico perché permette ai ciechi di scrivere con chi non sa il braille. Senti, tocca qui». Lorenzo prende i nostri polpastrelli e li appoggia sulla riga in basso del tablet, poi manda una mail col suo smartphone. E noi, di nuovo a occhi chiusi, sentiamo i minuscoli puntini che picchiettano la pelle come aghi. Se fossimo ciechi, ora leggeremmo. Invece apriamo gli occhi, rispondiamo alla mail di Lorenzo dal nostro cellulare e adesso è lui a mettere le dita sulla macchina, sentendo il corpo aguzzo delle nostre parole. Stiamo scrivendo a un cieco, dopo che lui ci aveva scritto come se noi fossimo ciechi. «Siamo normali e ci battiamo per allargare gli spazi di questa normalità a chi ha deficit fisici.
Lo facciamo dentro il mercato, non fuori», ripete Davide e ci tiene molto. Si alza, dobbiamo andare dove sono esposte le altre tecnologie. Percorre il corridoio sfiorando il muro col dorso della mano, è una vita di particolari da collegare, di puntini da unire, di percorsi da trovare. «Si parte dal piccolissimo, è lì il senso: più nel capitello che nella cattedrale». Lorenzo ci segue fumando una sigaretta elettronica. Grossi monitor sul tavolo. «Sono i video ingranditori, non dimenticate che su 100 persone con problemi alla vista, 80 sono ipovedenti». Come Daniela Zanon, cartolaia a Trebaseleghe che prima, in negozio, ci aveva mostrato il suo visore: «Mi serve per leggere libri, giornali, fatture, l’elenco del telefono. Da quattro anni, qui dentro sono di nuovo normale».
Torniamo in laboratorio. Davide infila un foglio dentro lo scanner, pigia un bottone, la macchina emette un breve fruscio e poi comincia a leggere, parlando. Contro il muro, cinque bastoni bianchi. Ma come? E i navigatori? «Per noi ciechi sono ancora troppo imprecisi, per camminare niente ha sostituito il bastone e naturalmente il cane». Quello di Davide si chiama Roy, un labrador. Animali, uomini, oggetti, idee, persone. Come Gabriele Ronca, 29 anni, ingegnere biomedico. «Mi occupo di installazioni e assistenza, vado dai malati di Sla e sistemo i computer a controllo oculare. Non ci si abitua al dolore, però non ho mai il minimo dubbio sul senso del mio lavoro». Gabriele ci fa sedere davanti a uno schermo. «Guardi lì dentro». Nel monitor le pupille diventano rosse. «La macchina le sta calibrando, si concentri sui fiorellini e li segua». I fiorellini viola si muovono nei punti dello schermo dove tra poco leggeremo e scriveremo con lo sguardo. Ora le telecamere del computer sanno perfettamente dove stiamo guardando e noi, immobili sulla seggiola, puntiamo gli occhi sulle lettere. È facile e veloce. Le parole scorrono alla svelta e non servono le dita, non serve la bocca per dire grazie a Davide, a Gabriele, a Lorenzo. Non pensiamo a niente, non pensiamo a come sarebbe vivere così. Dopo ci penseremo ma non adesso.
(12 – continua)