20 maggio 2016
In morte di Marco Pannella
Mattia Feltri per La Stampa
Sebbene Marco Pannella abbia promosso centodieci referendum, diretto trentasei giornali e intrapreso un numero di scioperi della fame che lui stesso non era in grado di quantificare, la sua vita aveva già raggiunto un compimento negli Anni Quaranta. Adria, la compagna di giochi e di qualche sconosciuto palpito, un pomeriggio non era tornata. Marco l’aspettò invano sulla spiaggia dei loro appuntamenti a Pescara. Non sarebbe tornata neanche nei giorni successivi perché era ebrea, ed era fuggita di notte con i genitori. Lui fu spedito dalla madre, Andrea Estechon, svizzera di Lucerna, ad affinare il francese in Alta Savoia a casa di un segretario comunale. Costui aveva un figlio, Émile, destinato alla leva e insofferente alla divisa e alle ragioni belliche; Marco ascoltava le prediche pacifiste del ragazzo e le liti del segretario comunale con la moglie. «Lei mi parla di divorzio», dice Pannella a Valter Vecellio in «Biografia di un irregolare» (Rubbettino). «Incontro il divorzio, l’obiezione di coscienza, le differenze sociali». Incontra le leggi razziali, i tumulti della guerra, i formidabili e folli tribuni del Novecento. «Credo che tutta la mia vita sia concentrata qui».
Il resto è una conseguenza lunga più di settant’anni: l’idea di un’Italia messa davanti alla sua ipocrisia, la legalizzazione dell’aborto in un Paese in cui si abortiva in penombra, quella del divorzio in un Paese in cui si divorziava privatamente, l’incompiuta battaglia per la legalizzazione delle droghe in un Paese in cui padri e figli si scambiano le canne. La centrale sfida al perbenismo e alla giustizia parruccona e autoritaria a cominciare dai giorni terribili di Enzo Tortora, quando Camilla Cederna sulla Domenica del Corriere portava in trionfo la sciatteria del pensiero: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni». Negli anni del Soccorso rosso e di altre mascherate filoterroristiche, in carcere a visitare i fascisti però ci andavano i radicali, e ci continuano ad andare nella santa convinzione che il progresso di un popolo si misura dalle prigioni. Se oggi non siamo del tutto allineati agli standard civili europei, ma almeno decentemente introdotti nel nuovo millennio, più di un po’ lo si deve a Pannella.
Perché poi non è tutto qui. È una conseguenza il resto, lo è il Marco clownesco, vestito da Babbo Natale a piazza Navona, nudo in vasca da bagno mentre riceve Gaetano Quagliariello, in tv a bere la sua stessa urina. Il Marco che negli Anni Sessanta rientrava in casa a notte e scavalcava i corpi addormentati di militanti radicali e giovani sconosciuti. Oppure il Marco che faceva l’alba a parlare di politica coi ragazzi, sinché non arrivava l’ortolano con le cime di rapa e alle sette si mettevano a bollire le orecchiette. Il Marco che Lino Jannuzzi - fondatore della goliardia universitaria - si vide davanti per la prima volta nel 1950, in cima a un campanile di Genova per annunciare la festa della matricola. Il Marco dello sberleffo alla vanagloria dei processi per vilipendio. Il Marco che Maurizio Ferrara, padre di Giuliano, al risultato del referendum sul divorzio dipinse così: «Come se seppe ch’era ’na vittoria / tutta piazza Navona strillò evviva / mentre sur parco un fregno ciassaliva / volénnose pija la gloria».
È difficile scrivere qualcosa di ulteriormente compiuto sul «fregno», su Marco Pannella, nato Giacinto come lo zio monsignore il 2 maggio 1930, con sollievo del padre Leonardo perché se il pupo fosse fuoriuscito ventiquattrore prima, festa dei lavoratori, sarebbe parso uno sfregio al fascismo. È difficile per il delirio di un’esistenza formidabile, impossibile da incasellare se non in un vasto umanesimo laico, nel disprezzo per la presentabilità sociale e per la sacralità dell’ordine costituito, costellata da impronosticabili trionfi e rovinose sconfitte, specie elettorali, di incontri asimmetrici e apparentemente stonati - da Benedetto Croce a Cicciolina - ragione per cui Pier Paolo Pasolini riconobbe che Marco non temeva né meretrici né fascisti, e cioè non temeva lo scandalo.
Voleva essere lui stesso uno scandalo, avvicinarsi ai confini del ridicolo, oltrepassare quelli dell’umana carità per le ragazze madri, i carcerati, i drogati, il popolo derelitto e schifato. Fece di sé il suo stesso programma politico: l’uso del corpo come testimonianza di una vita in pubblico, più che di un’ideologia, e mancavano molti anni alla Seconda Repubblica Show. Il primo sciopero della fame è del 1960, quand’era corrispondente del «Giorno» a Parigi e seguì un vecchio anarchico, Louis Lecoin, che a suo tempo aveva chiesto al Papa di intercedere per Sacco e Vanzetti, e ora protestava contro la guerra d’Algeria; raccontò a Clemente Mimun del suo amore trentennale per Mirella Paracchini, «ma ho avuto tre, quattro uomini che ho amato molto...». Già nel 1976 a Playboy aveva spiegato che «tanto più privati certi fatti m’appaiono, tanto più pubblici e politici cerco che siano riconosciuti»; le Unioni civili appena approvate sono la tardiva e un po’ formale codificazione di una consapevolezza che prende sostanza lì.
Ha messo politicamente al mondo qualche decina di capoccia andati poi a far danni altrove. Non è stato fermo un istante, ha ottenuto l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Repubblica, e poi l’ha definito un don Rodrigo. Massimo D’Alema, come tanti altri, lo detestava e diceva che già di prima mattina puzzava di whisky, sennonché i concetti di prima mattina o di metà pomeriggio erano estranei e a uno del genere, in tutti i sensi fuori dal tempo. Infatti era lui il Signor (Robin) Hood di Francesco De Gregori, era lui il radicale di Giorgio Gaber che doveva metter su un altro referendum, «questa volta per sapere, dov’è che i cani devono pisciare», era per lui che il rapper J-Ax cantava «le vacanze le farò in Giamaica, dalla mia Maria bella, aspetto, intanto voto Pannella e canto». Nessuno ha messo in rima la fondamentale e troppo prosaica guerra al proporzionale, e molti hanno sfruttato da furbini quella al finanziamento pubblico ai partiti.
Si rimane qui a ripensare a tutto, al laticlavio mai avuto da un Paese che adora gli appena sufficienti e detesta gli ottimi, perché rompicoglioni, alle raffiche di improperi che destinava a chi voleva bene, alle trattative estenuanti con Silvio Berlusconi per l’alleanza sfumata del 1996, quando Marco scocciato se ne andò con gesto plateale, e Rocco Buttiglione lo cercò tutta notte non per ricucire, ma perché nella concitazione il capo radicale gli aveva preso il cappotto. Si pensa all’ex segretario radicale Giovanni Negri che ora s’è ritirato in Piemonte a fare il vino buono e un giorno disse una cosa dolce: «Conosci l’Okavango? È il fiume più bello del mondo. Ma non sfocia nel mare, finisce nel deserto. Pannella è l’Okavango della politica». Si pensa ai sigari alla grappa e alla menta. Si pensa a quel lontano pomeriggio romano, quando Marco se la svignò dall’ospedale in cui era ricoverato per un’ischemia, e si presentò sul palco per il comizio. Ha rischiato grosso, spiegarono i medici. E lui, come Calvero, disse: «Non vi preoccupate, sono morto tante volte».
Clemente Jacky Mimun per il Corriere della Sera
M arco ha trascorso le sue ultime ore senza soffrire. Una terapia antalgica lo ha difeso dai dolori addominali che lo hanno stremato negli ultimi giorni. Ha riposato, forse ha sognato, chissà, grazie a un’infusione continua. Ha resistito da par suo per 2 anni esatti a un terribile tumore ai polmoni, che ha via via colpito anche il fegato. È stato così sfrontato da mostrarsi nel maggio del 2014 alla trattoria sotto casa, dopo il primo ciclo di radioterapia, con un gran piatto di spaghetti e una birra. Non ha interrotto la sua attività politica neppure per un giorno. Negli ultimi 100, però, è stato straziante vederlo appassire, giorno dopo giorno, ma anche inevitabile per un amico di sempre. A un affetto reciproco tanto profondo, non poteva che corrispondere la volontà di provare a confortarlo in ogni modo fino alla fine. Marco Pannella ha combattuto per tre mesi la sua ultima battaglia, con la grinta di un leone ferito, che ruggiva, mostrava muscoli e denti. Ma lo ha fatto anche con la tenerezza di chi, sempre più debole ed appannato, abbracciava e si faceva abbracciare, lanciava baci, sorrideva e provava, come poteva, ad interagire. A tratti con lucidità, più spesso in modo disordinato. La terapia dell’amore che gli hanno propinato per più di tre mesi le persone a lui più care ha fatto miracoli: gli ha allungato la vita, oltre ogni logica scientifica. Compagnia costante e prontezza nell’assisterlo, certo, ma anche continua sollecitazione sui fatti del giorno, iniziative da intraprendere, ascolto di radio e tv, lettura collettiva di giornali e libri. Sempre, anche quando aveva gli occhi persi nello scorcio di cielo delle piccole finestre della sua cucina-salotto. A volte si scuoteva e partecipava, altre era smarrito, perso chissà dove. Ma mai solo. In queste settimane ha reso partecipi tutti del suo amore infinito per la sua terra, l’Abruzzo, le sue radici profonde. Con entusiasmo, in dialetto stretto, ha raccontato le dinamiche della sua famiglia, l’amore per la «franzosa», sua madre, l’esempio costante del papà, l’immenso affetto per lo zio prete, Giacinto, di cui ha sempre campeggiato una grande foto nel suo salotto. E poi gli incontri giovanili, gli amori, che lo hanno segnato, portandolo a comprendere subito che senso dare alla sua vita. Battersi per le libertà, lo stato di diritto, la pace, la tolleranza e la giustizia.
Nel suo lungo addio il tumore maledetto, gli acciacchi di troppi digiuni, i polmoni usurati da migliaia di sigari e sigarette e una vita intensa, come 50 esistenze di noi umani. Marco ha combattuto con una incredibile energia la sua battaglia per la vita, fino alle 13 e 30 di ieri quando Matteo Angioli si è accorto che non respirava più ed è scoppiato in lacrime con la sua Laura. Marco ha sempre amato la vita, nonostante l’abbia messa a repentaglio più volte. «Una vita felice» – ha detto fino alla fine – perché dedicata alla libertà. E il 2 maggio, quando si è festeggiato il suo 86esimo compleanno coi soliti amici, sorrideva e manifestava gratitudine per tanto amore, sorseggiando pochissimo champagne e mangiando di gusto una millefoglie alla crema. Leader importanti, ambasciatori, il presidente Mattarella, papa Francesco attraverso monsignor Paglia gli sono stati vicini con affetto sincero, non per ragioni di opportunità. Dopo il compleanno è stato sopraffatto, ma non ha mollato subito, ha provato a resistere anche a dolori che si facevano insopportabili. Fino a quando è stato costretto alla resa. E si è dovuto lasciare andare. Un paio di giorni fa, chi gli era accanto ha notato che, dopo l’ennesimo rantolo, con un sorriso amaro ha fatto il gesto di spararsi alla tempia. Un attimo di sconforto, per poi ricominciare ad ascoltare, parlare lentamente, fumare, bere una coca, con gli occhi sempre più spenti e senza più potersi alzare e camminare da solo. Ma era comunque il Pannella leone, il leader, che – amico – cercava di consolare chi gli stava intorno con gli occhi sempre più gonfi, trattenendo le lacrime. Matteo e Laura, con Mirella, Rita, Maria Antonietta, Maurizio e Alessio, avercene amici così. Gli stessi che ora si avvicendano nella sua stanza in clinica. Quelli che non lo lasciano e non lo lasceranno mai solo. Una piccola grande famiglia, più che un partito, o una radio. E il suo medico, Claudio Santini, che lo ha aiutato ad andare avanti, finché gettare la spugna sul ring della vita di Marco è stato inevitabile.
Bravo dottore e grande amico, che ha avuto la capacità di misurarsi per un paio di decenni con un uomo dal carattere impossibile, incapace di adattarsi alle regole, perfino inorridito dal fatto di dover ingurgitare farmaci. Marco il buono, ma inflessibile. Sempre determinato, spesso insopportabile, ma pronto all’ascolto. Duro, durissimo, soprattutto con se stesso. Un uomo integro, un gigante delle libertà, che ha conquistato per tutti diritti fondamentali. Lascerà un patrimonio di passione civile, morale e di buona politica. Spero per tutti noi che, prima o poi, qualcuno avrà il coraggio e la f orza di raccogliere il suo testimone.
Filippo Ceccarelli per la Repubblica
Sembra incredibile che non ci sia più Pannella, di tutti i politici fino a ieri in servizio senza dubbio il più nobile. Per gli altri, che a questo benedetto servizio assegnavano un ruolo secondario, era uno spaventoso rompiscatole. Forse proprio per questo lo temevano, come si teme una cattiva coscienza; forse anche per questo, quando stava per morire, hanno fin troppo cantato le sue lodi. Il bello, semmai, è che lui stesso l’aveva previsto: «Vedrete i funerali!» Per anni, come un vero narciso, Marco, che poi si chiamava Giacinto, s’è immaginato di vedere la nomenklatura, il potere, il regime «dalla mia bara». Un sorriso, un’alzata di spalle, una boccata alla sigaretta, pestilenziale. Non aveva paura di niente, non aveva paura della morte. A 29 anni aveva cercato di farla finita, e per il resto della sua lunga e piena esistenza, specie durante i digiuni, ha giocato a rimpiattino, a nascondino, ad acchiapparella, perfino a battimuro e a rubabandiera con la sua stessa scomparsa.
Come estrema risorsa spettacolare negli ultimi anni volentieri accettava di parlarne: «Lentamente muore chi teme di morire. Più ti neghi le cose, più spegni la vita. Spero di accoglierla con grande familiarità, spero che in qualsiasi momento, soprattutto la notte, quella arrivi e io possa darle il benvenuto, felice di trovarmi così...». Pausa, gli occhi sgranati, la coda di cavallo giallastra che uno sciamano un giorno gli aveva tirato come augurio, i denti bianchi, la bocca enorme, e ancora la chiamava, la morte, facendole segno, con tenerezza: «Vieni, vieni qui...».
Eccola dunque, è arrivata. Lui che riempiva le stanze e le svuotava, gigantesco e rumoroso, a volte però anche gonfio, tronfio, ma pure flebile e gracile come un uccelletto. Vestito da Amleto, dolcevita nero e pendaglio pacifista, ma anche fasciato di terribili doppipetti da gangster. Come pure, direttamente travestito: fantasma (il costume preferito), clown, Babbo Natale rosso (tradizionale) e giallo (originale), una volta, sembra di ricordare, anche Befana. Comunque quasi sempre bellissimo. All’inizio degli anni Sessanta, quando il giovanotto scampato al suicidio aveva trovato già il modo di polemizzare con Togliatti, disse no ad Antonioni che lo voleva nel cast de La Notte. Alla metà dei Settanta, scheletrico all’apice di uno sciopero della fame, si fece fotografare da Playboy senza vestiti. Più di ogni altro Pannella ha sperimentato il potere della nudità. Nel 1995 ha fatto spogliare in un teatro otto militanti, tra cui l’ultrasettantenne Stanzani, mentre lui dietro le quinte recitava il profeta Isaia.
E lì per lì, essendo vaghi i confini tra l’osservazione giornalistica e il cinismo — al teatro Flaiano, oltretutto! — ecco, lì ci poteva scappare qualche sghignazzo dinanzi a quella penitenziale performance, come dinanzi alle maratone oratorie che vedevano quei poveracci di radicali parlare al gelo e sotto il solleone, quando la tempesta non si portava via tavoli e gazebo. Eppure, dalla droga alle stami- nali, dalla fame nel mondo all’eutanasia, nessun altro leader più di Pannella è riuscito a dare cervello e corpo, ma letteralmente, alla politica. Quindi anima.
Adesso che tutti dicono, come pappagalli «Ci metto la faccia», è bene ricordare che in questi ultimi cinquant’anni, dal divorzio all’aborto, dall’informazione alla corruzione, dall’Europa al Sud del mondo, se non ce l’avesse messa davvero lui, la faccia, non ci sarebbe italiano che almeno una volta non abbia pensato: grazie, Marco. Alla guida della più esigua e strampalata minoranza, a partire dal divorzio secondo misteriose e prodigiose traiettorie incrociò il respiro di maggioranze autentiche cambiando la storia d’Italia. E poi, si capisce, facendo anche un sacco di errori e terra bruciata e piazza pulita attorno a sé, dissipando consensi, carisma, energia, ma sempre riuscendo con strenua e gioiosa naturalezza a restare se stesso: povero, coerente, coraggioso, drasticamente antimachiavellico e anticuriale, così lontano dal potere, quest’entità demoniaca, da proporre di continuo a tanti potenti curiose forme di alleanze che si risolvevano per loro in purgazioni, liberazioni, paradossi, ribaltamenti, con l’unico invalicabile limite che il suo caratteraccio gli imponeva: o tutto o nulla.
Chi non è con me, suonava la sua istanza basilare, è contro di sé. Così Pannella ha conosciuto i ceffoni della Vigilanza del Pci, gli sputi dei rifondatori comunisti, le botte dei poliziotti di cinque o sei paesi compreso il suo, le manette e la puzza delle galere, il disprezzo e il silenzio dei media. In Sicilia ha trattato con l’avvocato Guarrasi e a Pinerolo è andato a bussare a quattrini dall’Avvocato Agnelli; lungo il suo orizzonte nell’arco di pochi anni hanno trovato posto Cicciolina e Giovanni Paolo II; a un congresso del Msi ha sfidato Almirante gridando «il fascismo è qui!»; durante una marcia antimilitarista gli è capitato di trovarsi a fianco Pino Pinelli da una parte e il Commissario Calabresi dall’altra.
A un certo punto ha trasformato il Partito radicale da un’accolita di vecchi signori in un raduno di hippy e poi in una straordinaria macchina di opposizione parlamentare e per i diritti civili: quattro deputati che facevano per trenta o quaranta. L’hanno sempre accusato di mangiarsi i figli (“i magnati” li chiamava lui), ma in fondo è uno dei pochi ad aver stabilito una scuola politica e formato una classe dirigente, vedi Rutelli, vedi Bonino, vedi la grande esperienza di Radio Radicale. È davvero impossibile, in questo giorno, rammentare ogni sforzo, ogni lotta, ogni invenzione e ogni resistenza pannelliana, e tanto più se si considera che lui ha sempre scritto poco e abbastanza contorto, affidando il suo impegno alla parola, a volte anche profetica.
Pure nel Palazzo è stato a lungo abilissimo tessitore di trame. Lunga è la lista degli “impannellati”, come li chiamava Craxi, che pure a tratti rientrò nella fattispecie e che forse alla fine avrebbe fatto bene a dargli ascolto, avendogli Marco consigliato di offrirsi ai giudici. Il punto è che chi offriva la mano al leader radicale, all’istante si vedeva acchiappare braccia, gambe, testa, come accadde a Martelli, Occhetto, Scalfaro, Piccoli, che pure a suo tempo l’aveva accusato di essere Satana, e poi Segni, Pecoraro e un’altra dozzina di protagonisti, oggi più o meno dimenticati. Lo stesso Berlusconi sentì il fascino intermittente di Pannella, che un giorno invitò lui e Letta a mangiare la pastasciutta nella sua buia cucina, dietro fontana di Trevi. E D’Alema.
Ma che ricchezza di esperienze civili! La politica spettacolo anticipata di trent’anni, la saldatura tra pubblico e privato di quaranta. Pannella ha frequentato Pannunzio e Pasolini, fraternizzato con Aldo Capitini, Ernesto Rossi e Leonardo Sciascia, ha diretto Lotta continua, ha offerto la sua eccezionale e smodata disponibilità alle prime femministe, ai primi obiettori di coscienza, ai primi ecologisti dell’antinucleare, ai primi drogati, ai primi pazzi reclusi nei manicomi, ai primi poliziotti democratici, ai primi gruppi di omosessuali. Nel frattempo ha liberato Braibanti, tirato fuori dal carcere Enzo Tortora (poi ce l’ha rimandato con motivazioni socratiche) e Toni Negri (che invece l’ha trattato malissimo), ha cercato di difendere Sindona e diversi ergastolani della ‘ndrangheta.
Ha bevuto la sua stessa pipì, l’osceno brindisi è andato in onda in diretta tv, così come sempre in diretta ha consegnato ad Alda D’Eusanio due etti di hashish («Che però nei verbali era diventati 1,40, il restante s’era perso per strada...»). Ha accolto ex preti, ex monache, ex fascisti, ex “compagni assassini”, ex dittatori cambogiani; con tutti loro, secondo arcani algoritmi, ha proposto decine e decine di referendum. S’è imbavagliato, ha perso, ha vinto, ha pacificamente, ma fastidiosissimamente occupato giornali e televisioni, ha ballato di gioia con orchestrine e Premi Nobel, ha difeso il Parlamento degli inquisiti convocandoli la mattina alle sette. Fino a qualche tempo fa, quando camminava per strada — «la strada mi è amica» — coatti e famigliole lo salutavano allegramente. Anche in forza di tale ruolo con chiunque, fosse anche Papa Francesco, divagava in un perpetuo di allusioni, aforismi, massime, sentenze, ricordi che si rincorrevano moltiplicandosi senza chiudersi, spezzettati come pastina in brodo, un lungo brodo in cui gli universali astratti prendevano non solo vigore, ma soprattutto valore dal fatto che al dunque nessuno più di lui aveva operato. Sembra ancora di sentirlo iniziare le frasi con la parola: «No», se si era fortunati «No, ma». E che fatica di aggettivi e sostantivi per azzardare una classificazione. Torrenziale, evangelico, buffone, apocrifo, criptico, risorgimentale, liberale, libertario, Don Chisciotte, gandhiano, beat, martire, povero in canna, frocio, bisessuale, fumato, lucidissimo, abruzzese, europeo, filantropo, africanista, junghiano. Senza soldi, senza macchina, senza figli, forse uno, o due, ma la mamma non si era più fatta viva e vi accennava con un velo di malinconia. Mai avuto un pregiudizio in vita sua. Raccontava, in ultimo: «Quando morì mia madre, un grande endocrinologo volle incontrarmi per ragioni diciamo scientifiche. Nella visita era molto interessato e cortese, mi disse chiaramente che voleva capire di persona se ero un tipo eccezionale o un imbroglione di talento. Concluse che ero una persona che avrebbe potuto fare bene tutto ciò che voleva, sport, studio, “Ma lei — disse — ha deciso di fare il Pannella, e io le auguro di esserne all’altezza”». E così adesso si apre l’ultima avventura nell’aldilà: «Fattelo spiegare da qualche scienziato cosa succede “dopo”, ci sono miliardi di atomi che se ne vanno nell’aria, qualcosa deve pur succedere, la persona è energia, il pensiero di chi se n’è andato acquista una sua materialità». E prima di passare al Buddha e a quanto gli disse un giorno la direttrice del museo astrofisico di Dharamsala, accarezzava quella trasognata “materialità”; come se per davvero la compresenza dei viventi e dei morti fosse il contrario dell’assenza; come se una vita vera fosse destinata a durare nel tempo.
Pierluigi Battista per il Corriere della Sera
Il nome di Marco Pannella evoca tante conquiste, tante battaglie, tanti eccessi. Tante immagini, soprattutto, legate indissolubilmente a un leader politico che ha combattuto con il corpo, con l’immagine e la materialità del corpo, in quell’agone politico italiano che ai tempi della fragorosa irruzione pannelliana trattava il corpo come un fastidioso impaccio, qualcosa di cui diffidare nel dominio incontrastato del concettismo ideologico. Pannella entrò invece anima e corpo, letteralmente, nella scena politica italiana. Com’era diverso da tutti gli altri, quell’oratore sottile e allampanato, la chioma ancora più arruffata e candida nel contrasto con il maglione nero indossato alla maniera dell’esistenzialismo francese. Diverso con il cartello perennemente attaccato al collo nelle manifestazioni a favore del divorzio. Diverso nella sua scheletrica magrezza nel corso di qualche sciopero della fame e della sete. Diverso quando si faceva immortalare imbavagliato alle telecamere. Con la sigaretta sempre accesa, anche dopo l’operazione al cuore, già avanti con l’età. O quando si concedeva all’arresto della polizia durante qualche manifestazione di disobbedienza civile. Diverso quando passava il Natale e il Capodanno a battagliare per l’amnistia o in compagnia dei detenuti, per rivendicare il rispetto costituzionale della dignità degli individui, anche, anzi soprattutto di quelli che scontano la pena in carcere per i loro errori: «Nessuno tocchi Caino».
Marco Pannella ha commesso moltissimi errori, dettati da quella che con la terminologia cristiana si chiamerebbe superbia e da incontenibile autostima: se ne accorgeva anche lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso, orgoglioso com’era. Ma nel computo delle ragioni e dei torti, i primi hanno decisamente surclassato i secondi. Un eccesso di sospettosità lo portava a diffidare delle figure forti che dentro e fuori il Partito radicale, nella nuova guardia o tra gli amici fiancheggiatori, avrebbero potuto offuscarne la splendida solitudine. Si innamorava troppo spesso delle sue stesse parole, senza accorgersi delle modalità vagamente castriste verso cui lo portava la sua oratoria torrentizia. Talvolta non sapeva resistere al suo lato fortemente profetico ed ecumenico, piegando il Partito radicale a un ruolo di testimonianza un po’ sterile nella battaglia, in sé meritoria, contro la fame nel mondo. E non si accorse, attorno agli anni Novanta, del logoramento dell’istituto referendario, schiacciato da una proliferazione di quesiti non sempre sentiti dall’opinione pubblica, stressato da un abuso che alla fine ha portato allo svilimento del referendum stesso.
Ma gli errori costellano inevitabilmente ogni impresa politica che abbia il respiro e le ambizioni delle trasformazioni storiche. E nessun errore potrà offuscare la semplice, elementare constatazione: Pannella ha portato nel cuore della battaglia politica una bandiera sconosciuta prima, o silenziata, o messa ai margini, il vessillo dei diritti civili. Una dimensione estranea alla maggioranza delle culture politiche che si erano cimentate negli anni dell’allora giovane Italia repubblicana, in gran parte insensibili alle tematiche dell’individuo moderno, dell’individualismo, delle libertà individuali, ispirate a forme più o meno intransigenti di collettivismo, di comunitarismo, in cui il primato dello Stato, del pubblico, del partito, della storia, della classe, della chiesa erano dogmi di larghissimo uso.
Con la battaglia per il divorzio, Pannella contribuì a scardinare questo ordine di priorità. I «diritti» degli individui non erano contemplati dalla cultura di matrice cattolica che pure aveva una visione della «persona» che voleva sottrarla dalle spire soffocanti dello Stato. Non erano considerati dalla sinistra di cultura comunista, che li liquidava come superflui, emanazione di una sensibilità borghese estranea ai bisogni «popolari» (mica si divorziava, nelle famiglie della classe operaia!). E non avevano molto spazio nella sinistra di cultura socialista e laica, anche se i firmatari della legge sul divorzio erano in fondo un socialista, Fortuna, e un liberale, Baslini.
Ma Marco Pannella agitò le acque della politica italiana facendo dei diritti civili l’ariete che avrebbe demolito il muro di diffidenza nei confronti degli individui che di quei diritti erano i legittimi portatori. E fece irruzione nella politica italiana con un’irruenza che metteva in gioco ogni frammento della propria presenza pubblica. La sua battaglia per la «giustizia giusta», qualche anno dopo quella sul divorzio e sull’aborto, nel decennio degli Ottanta, quando l’Italia conobbe la mostruosa manipolazione giudiziaria ai danni di Enzo Tortora, fisicamente massacrato da un uso abnorme dei poteri di una magistratura appoggiata dal coro dei media, sfidò il conformismo, il quieto vivere, l’assuefazione di molti italiani alle iniquità di un sistema che non conosceva i contrappesi liberali del diritto e dell’equilibrio. E per fortuna Pannella e i Radicali trovarono in questa battaglia garantista e di civiltà l’appoggio incondizionato di una figura inquieta e irregolare come Leonardo Sciascia, che per questo subì il rito della scomunica da parte di una sinistra prigioniera delle sue ossessioni illiberali.
Anche per questo Marco Pannella fu molto diffamato dal coro dei conformisti e dei pasdaran dei poteri costituiti e delle ortodossie ideologiche che salutarono con entusiasmo l’incidente del Toni Negri che fuggì all’estero dopo essersi munito dell’immunità parlamentare con l’elezione nelle liste dei Radicali. Che si scandalizzarono quando Pannella, con un gusto del gesto imprudente che però faceva parte del suo bagaglio esistenziale e culturale, promosse l’ingresso della pornodiva Cicciolina nelle ingessatissime e perbeniste aule parlamentari. E che non capirono il Pannella che si rifiutava di adeguarsi al furore giustizialista che stava accompagnando la tempesta di Manipulite, quando il leader radicale prese provocatoriamente sotto la sua protezione il «Parlamento degli inquisiti» e si avvicinò al Bettino Craxi, suo vecchio compagno di battaglie universitarie, che in quegli anni stava conoscendo l’onta del linciaggio o dell’abbandono di chi era stato illuminato di luce riflessa all’epoca dei trionfi del Garofano craxiano.
Il Pannella che nella battaglia politica aveva messo tutto se stesso, a cominciare dal corpo continuamente traumatizzato dagli scioperi della fame, può essere ricordato come il campione dei diritti civili e del garantismo nell’Italia che si vorrebbe culla del diritto ma che invece dello Stato di diritto ha voluto scavare la tomba. Un leader ancorato nella sinistra ma che non ha mai sottaciuto i limiti e le meschinità della sinistra storica maggioritaria. Che ha intrattenuto rapporti tempestosi con i suoi stessi compagni, a cominciare da Emma Bonino al suo fianco da decenni, fino a essere accusato di essere un Crono avvezzo a divorare i suoi figli, uno dietro l’altro. Un leader che ha messo in gioco tutto, anche i rapporti personali, anche tutt’intera la sua umanità, il suo corpo, la sua icona, carnale e ascetica insieme. Fuori dagli schemi consolidati, sempre.
Eugenio Scalfari per la Repubblica
Il fatto saliente che ci ha accomunato è stato il Partito radicale. In Italia, come in Francia e in Spagna, i radicali ci sono sempre stati. Erano un partito di sinistra con matrice liberale. Negli altri Paesi di ceppo inglese e tedesco la parola “radical” equivaleva e tuttora equivale al comunismo. In Italia tuttavia la radice liberale ha molti significati e molte parole che li definiscono: liberale, libertario, libertino.
Noi di matrice crociana ed anche gobettiana eravamo liberali di sinistra; di fatto discendevamo dal Partito d’azione e dallo slogan partigiano di Giustizia e Libertà. Marco era soprattutto libertario, cioè la libertà come valore unico da praticare in tutti i modi. Per fornire un esempio una donna come Ilona noi non l’avremmo mai collocata al vertice del partito e non ne avremmo appoggiato il suo ingresso alla Camera dei deputati.
I nostri antenati erano storicamente Cavallotti e i garibaldini della “legione lombarda”: i Cairoli, i Dandolo, i Manara. Marco, forse anche a lui piacevano ma non in modo particolare. Lui piaceva soprattutto a se stesso, convinto com’era che il vero radicalismo cominciasse da lui e dai suoi compagni.
Liberali lo eravamo tutti, Marco soprattutto nel suo modo di vita, noi in parte allo stesso modo ma in maggior parte col pensiero. Per noi il libertinaggio intellettuale era quello di Voltaire, di Diderot, di Mirabeau, di Condorcet e poi di Roosevelt e di Churchill. Dunque la nostra pasta umana era molto diversa dalla sua.
Accadde poi che nel 1956 noi, “Amici del Mondo” fondammo il Partito radicale: Pannella e un gruppo di suoi amici che militavano nell’associazione goliardica di sentimenti laici chiamati Ugi (Unione goliardica italiana) entrarono nel nostro partito nel ’58 ma furono sempre un gruppo in qualche modo estraneo. Nelle riunioni di partito alle quali partecipavano presentavano fin dall’inizio mozioni di procedura preliminare ostacolando a dir poco per un’ora l’inizio della discussione politica alla quale partecipavano poco e poi abbandonavano la riunione manifestando esplicitamente un’assoluta indifferenza verso i temi da noi esaminati. Salvo – come ho già detto prima – quando si trattava di nuovi diritti da conquistare: allora eravamo tutti uniti e combattevamo con passione il difficile tema cercando di diffonderlo il più possibile nella pubblica opinione e poi con altri mezzi costituzionali: progetti di legge di iniziativa popolare, dimostrazioni di piazza in tutta Italia, iniziative referendarie.
Eravamo pochi di numero ma ci moltiplicavamo lavorando in tutte le ore del giorno e della notte.
Avvenne poi che nel 1962 il nostro Partito radicale si spaccò sul tema dell’apertura a sinistra. Alcuni di noi volevano i socialisti al governo con la Dc e i repubblicani; altri accettavano solo un appoggio esterno dei socialisti. La soluzione fu che tutti i radicali decisero di dimettersi dal partito e così cessò di esistere. Ma Pannella e i suoi quattro amici no, restarono e rifondarono il partito. Mantenendogli il nome ma cambiandone radicalmente il contenuto fino ad oggi, guidati da Marco, da Emma Bonino e da qualche altro di cui purtroppo non ricordo il nome.
Da allora non ci incontrammo più, salvo nelle occasioni del divorzio e dell’aborto anche perché Marco voleva essere in Parlamento con qualcuno dei suoi e per ottenere questo risultato ne fece di tutti i colori: scioperi della fame, poi della sete, alleanze politiche ed elettorali con personaggi centristi e cattolici, un paio di volte addirittura con Berlusconi. Naturalmente non ne condivideva le idee e proprio per questo una alleanza elettorale faceva ancor più chiasso perché ciascuno sosteneva tesi diverse dall’altro ma tuttavia si presentavano insieme davanti ai cittadini.
Qualcuno oggi lo paragona a Grillo. Qualche somiglianza c’è ma le distanze sono molte. Sono due attori, Grillo professionista, Pannella dilettante. Grillo ha politicamente lo scopo di abbattere tutte le istituzioni esistenti, quello che verrà dopo si vedrà. Pannella voleva invece cambiarle, ma non distruggerle e spingere ed allargare il più possibile il tema dei diritti per ottenere i quali avrebbe preso qualunque iniziativa. Diritti soprattutto sociali. Per questo è andato a trovare perfino il Papa. Chi lo conosce sa che Marco non si è mai posto il problema dell’aldilà. Lui credeva soltanto nella vita. Amava i viventi e desiderava che tutti l’amassero. Non ha mai avuto il problema del potere ma quello della notorietà, quello sì.
Quando faceva lo sciopero della fame che dopo qualche giorno diventava anche quello della sete, l’ha fatto quasi sempre sul serio. Gli costruivano una tenda all’interno della quale riposava con un medico sempre accanto e gli amici che si avvicendavano per venirlo a trovare. L’obiettivo che lui aveva per fermarsi dallo sciopero era di ottenere il successo sulla tesi che in quel modo stava sostenendo.
Ricordo molto bene la prima volta del suo sciopero della sete. Era buona stagione e c’era il sole. Marco aveva chiesto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica che era allora Giovanni Leone nella sua qualità di segretario del Partito radicale, ma non c’era in quella legislatura alcun radicale in Parlamento.
Leone rifiutò. Era disponibile a riceverlo come persona, ma non in quella pubblica veste altrimenti avrebbe creato un precedente per un qualunque cittadino con la voglia di essere ricevuto al Quirinale inventandosi un partito inesistente e con quella motivazione incontrare il Presidente.
Naturalmente Pannella proprio quello voleva e tanto più in quanto i radicali in Parlamento in quel momento non c’erano, ma la carica sì ed era questo che doveva contare.
A quel punto il Presidente Leone mi convocò, sapeva che conoscevo Pannella molto bene e voleva conoscere la mia opinione in merito. Era il 1971 ed io ero deputato socialista.
Andai. La scusa era una mia opinione sull’andamento della lira perché io mi interessavo molto di temi economici, ma in realtà arrivammo subito al problema Pannella. Leone mi domandò se fosse possibile che spingesse la situazione fino al punto di essere in grave pericolo di morte. «Il rischio c’è, l’ha detto anche il medico, ma che Pannella lo voglia credo di poterlo escludere. Però bisogna stare molto attenti ad una vita spinta fino al limite dell’esistenza». «Lei sa qual è l’ostacolo, l’ho detto pubblicamente» «sì lo so, ma una via d’uscita si può trovare. Pannella è anche presidente di molte associazioni importanti. Lei può riceverlo per quelle sue cariche aggiungendo che è anche segretario del Partito radicale».
Così andarono le cose e Marco ottenne quel successo per il quale aveva sfiorato il peggio. Del resto altri scioperi della sete ne ha fatti e sono sempre terminati come lui sperava.
Che sia stato un grande attore l’ha ancora una volta dimostrato perché alla vigilia della morte, stavolta inevitabile, ha trasformato la sua casa in una sorta di locale di festa tra amici, con lui protagonista.
Non ci sono morti, l’ho già detto, ma momenti in cui il grande attore regala a se stesso e ai suoi amici il divertimento nei limiti in cui ancora può. Ha vissuto col gusto di vivere ed ha voluto che anche gli altri facessero lo stesso da questo punto di vista non ha mai considerato che cosa sarebbe accaduto o non accaduto dopo. Alla fine arriva sorella Morte e tutto è finito.
Alessandro Trocino per il Corriere della Sera
«In Italia comandano i morti». Chissà se la battuta del «Regista di matrimoni» diventerà realtà per Marco Pannella. Perché in vita, i riconoscimenti sono stati scarsi. Tra i non moltissimi che lo hanno sempre appoggiato, candidandosi anche un paio di volte sotto le insegne della Rosa nel Pugno e della Lista Bonino-Pannella, c’è il regista di quel film, Marco Bellocchio. Che, dopo «Fai bei sogni» (in questi giorni a Cannes), sta scrivendo un film su Tommaso Buscetta.
Bellocchio, chi è stato Pannella?
«Un grand’uomo. Per me è stato un padre della patria. Una figura gigantesca, non solo della politica. Un italiano straordinario, una figura rarissima».
Anche molto criticata.
«La sua forza è stata anche il coraggio con il quale è passato sopra alle critiche. Ricordo le sue battaglie per la laicità, la sua non violenza».
Negli ultimi anni, certi successi degli inizi, dal divorzio all’aborto, non si sono ripetuti.
«Lui era un isolato, che è riuscito a trascinare l’Italia in vittorie straordinarie. Negli ultimi tempi faticava a trovare posto in una società effimera, basata sui sondaggi. Altri radicalismi hanno sostituito Pannella e il suo partito, un modo di vivere la politica più fuggevole e superficiale. Era diventato più difficile per alcuni comprendere la sua intelligenza e la sua coerenza».
Gli fu rimproverata a sinistra, come incoerenza, l’alleanza con Berlusconi.
«Per alcuni allearsi con Berlusconi è stato un sacrilegio, uno scandalo. Per me no. Posso avere dissentito da lui, ma ogni politico fa le sue scelte per perseguire i suoi fini. Anche allearsi con il diavolo, come era considerato allora Berlusconi. La politica è anche questo, ma lui non si è mai sporcato le mani. I suoi fini non sono mai stati quelli di occupare poltrone o il potere per il potere, né i soldi. In questo era assolutamente disinteressato. E l’alleanza con Berlusconi, in forma leggera poi, non intacca la sua integrità di grande cittadino italiano».
C’è chi lo voleva senatore a vita, chi ministro, chi invece presidente della Repubblica.
«Lui se n’è sempre fregato. Cercava consenso per portare avanti le sue battaglie. Era troppo scomodo per fare il ministro. La Bonino, altro grande personaggio, è più discreta, delicata, diplomatica. Lui no. Ma poi son sciocchezze: quanti ministri son passati nella storia e sono dimenticati?».
Quando l’ha conosciuto?
«Durante il processo Braibanti, che era accusato per plagio, reato che non esiste più. Mi ricordo il suo coraggio nel difenderlo».
Lei è stato candidato un paio di volte con i radicali.
«Sì, candidature di testimonianza. Ma ho fatto poco, non voglio intestarmi nulla e non ero un suo grande amico. Lo ammiravo: resta unico, un esempio per tutti».
Vittorio Macioce per il Giornale
«Quando ero ragazzo a Teramo mi atteggiavo a poeta. Mi sentivo Rimbaud, scamiciato, con le suole di vento, con la voglia di vivere la mia stagione all’inferno, facendo deragliare tutti i sensi. Ti ricordi i colori delle vocali? A nera, E bianca, I rossa, U verde, e la O non ricordo mai se blu o viola. Tutte e due, mi sa. Un tempo la recitavo in francese».
«Marco in fondo poeta lo sei stato. Veggente, proprio come Rimbaud».
«Mi avranno ascoltato?».
«Qualche volta sì. Magari non sempre capito».
«Mi hanno amato, gli italiani?».
«Ti faranno santo».
Era una domenica d’ottobre, l’ultima volta che ci siamo presi il tempo di chiacchierare senza fretta, nel bar di casa sua, con quelli che lo indicavano passando, e lui che salutava felice tutti. Un pomeriggio di flashback, divagazioni, reminiscenze a parlare di Montanelli e Malagodi, di Craxi e Martin Luther King, di Berlusconi e Papa Francesco, del Vangelo di Giovanni e del Giorno della civetta di Sciascia. Tutti abbiamo paura di morire, ma tu la anneghi nella tua ingorda curiosità. E chissà cosa daresti adesso per sbirciare quello che dicono di te. Sei stato un padre senza figli. Troppo egocentrico per non divorarli tutti, ma il vuoto politico, umano e culturale che lasci ha gli stessi colori dell’esplosione di una supernova. Come scriveva Rimbaud? «O l’Omega, raggio viola dei suoi occhi». Addio Marco.
Eccola è arrivata e come sospettavi ha davvero i tuoi occhi. Quegli occhi azzurri e viola, infiniti, destinati a guardare sempre al futuro, con la cocciutaggine abruzzese di chi si ritrova sempre fuori sincrono con il tempo degli altri. Qualche volta ti voltavi indietro, spiluccando da solo in qualche ristorante, come oasi dei tuoi incorruttibili scioperi della fame. Spesso su questa storia ti prendevano in giro. Non ti credevano. Non ti capivano. «Quello mangia di nascosto. Quello è un furbone. Quel vecchio sono anni che campa di politica e non crepa mai». Meschinità. Non è mai stato facile guardare la vita con i tuoi occhi. Non mangiare e non bere. Non era solo una protesta non violenta. Era illuminare. Era dire, far vedere, indicare. Ogni volta una croce, un diritto violato, una libertà stuprata, una costituzione tradita. Allora adesso andate indietro e ripercorrete quel percorso senza pane e senz’acqua e troverete il viale delle ingiustizie, una via dell’inferno che lui, come Gandalf, ha attraversato per ognuno di noi. Magari molti saranno contenti che non c’è più quel rompiscatole con la coda bianca da stregone a frantumarci l’anima con i suoi monologhi senza tempo, solo che adesso quella strada è buia e all’improvviso siamo tutti più miopi.
Je ne regrette rien. La voce è sempre di Edith Piaf, l’anima è ancora la sua. Giacinto Pannella detto Marco non ha mai rinnegato nulla. Era la sua forza, la sua storia, la sua biografia. Non c’è perdono. Non c’è peccato. Non c’è redenzione. Quest’uomo potevi prenderlo solo così, come un gigante imperfetto, scomodo, qualche volta irritante, come un perdente che non è mai stato sconfitto, come un maestro che si ribella ai suoi discepoli.
Pannella che non è di destra né di sinistra. Pannella liberale, liberista e libertario, pasoliniano, Sciascia e Cicciolina, Tortora e Toni Negri, craxiano e degasperiano, con Wojtyla e contro la Chiesa, berlusconiano e piddino, qualche volta perfino andreottiano. Pannella che è sempre e solo Pannella. Fin dall’inizio. Ti ricordi il primo sciopero della fame? «Lo ricordo bene. Inizio anni Sessanta. Lavoravo a Parigi per Il Giorno. E avevo ottimi rapporti con la resistenza algerina. C’era un vecchio anarchico francese, Louis Lecoin, uno che contro la tradizione anarchica aveva chiesto addirittura al Papa di intervenire per salvare Sacco e Vanzetti, convertito alla non violenza, con un certo prestigio nel mondo intellettuale. E a lui mi aggregai. Dopo quattro-cinque giorni smise lui e smisi io». Il motivo? L’appoggio alla resistenza algerina. Tutto comincia e finisce con i diritti umani.
«Amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari amfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione». Pannella era una vecchia zitella che ha avuto tanti amanti. Li ricordava tutti e non scomunicava nessuno. Craxi gli diceva: «Non posso starti sempre a sentire, questi ci linciano». Marco ne parlava così: «Quando salvammo D’Urso, prigioniero delle Br, finì a champagne con lui. Sorrideva. E siccome non aveva ancora aggiustato i denti aveva davanti una fessura, di quelle in cui ci puoi fare i tuffi. Non era bello, ma quel sorriso aveva un suo fascino». Di Andreotti sosteneva: «Devo dargli atto che con il passare degli anni il suo cinismo cattolico romano si è trasformato in alto cinismo greco. Ha saputo crescere invecchiando».
Quelli del Pci non lo hanno mai sopportato. I radicali erano i borghesi, quelli con troppi vizi, una compagnia girovaga di buffoni e viandanti. Li chiamavano «froci e drogati». «Hanno sempre cercato di esorcizzarmi. Ci hanno vissuto un po’ come i comunisti storici avevano vissuto i trotzkisti. E mi dispiace che questo atteggiamento lo sento ancora nel Pd». È stato sempre così. La sinistra ha cercato di tenere Pannella fuori dalla porta. E anche alla fine lo sopportavano per amore della Bonino. È difficile collocarlo. La politica è meraviglia: «Ho difeso il Msi dal fascismo degli antifascisti». Uno dei suoi teoremi: «Il dialogo è tra persone che non condividono tutto. La sintesi è una profonda trattativa». Sembra che Papa Wojtyla ascoltasse le sue interviste: «Lo ha raccontato lui stesso. Quando arrivò a Roma, appena eletto cardinale, gli parlarono di questo politico strano che faceva scioperi della fame. Volle vedermi. Di quel dialogo ci rimase una visione non distante sull’idea di religiosità». E adesso, ancora in questi giorni, le telefonate con il Papa venuto dalla fine del mondo, con Francesco.
Pannella non sarà mai un «padre della patria». Niente monumenti. «Mi offenderebbero un po’». Un giorno gli chiesero: che fai se gli italiani ti eleggono presidente? «Mi dimetto. Significa che l’Italia non ha più bisogno di me».
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Filippo Facci per Libero
Marco Pannella ha interrotto lo sciopero della morte. Era iniziato il 2 maggio di 86 anni fa e forse era l’unico sciopero che nessuno gli aveva chiesto d’interrompere, che nessuno derideva o considerava patetico, che non anticipava una battaglia tremendamente inattuale e che altri, un domani, avrebbero vendemmiato e magari vinto al posto suo. Pannella da una sessantina d’anni diceva cose giuste ma con troppo anticipo, così sembravano sciocchezze; quando si realizzavano, lui era già passato a dire altre cose giuste ma con troppo anticipo, e sembravano altre sciocchezze; così sembrava che dicesse sempre sciocchezze, e non ne diceva mai. Quando corse voce che era malato sul serio (due tumori) e che presto sarebbe giocoforza morto, molti noi risposero: sciocchezze.
Non me ne frega niente di scrivere, ora, un dignitoso «coccodrillo» di Marco Pannella. È da due mesi che a Libero me lo chiedono. E poi ultimamente muore un sacco di gente, e invecchiare significa accorgersene progressivamente sempre di più, o forse significa stupirsi che Tizio sia morto oppure stupirsi che - tu guarda - è ancora vivo: ma il problema è che Pannella era fuori classifica, è come se avessero detto che era morto il Cervino: impossibile, c’è sempre stato e ci sarà sempre. Del resto tutta la vita di Pannella sembrava sempre un falso allarme, un’esagerazione.
Apro una parentesi personale, un parallelo che segnato la mia carne con una roncola. Conobbi Marco Pannella quando avevo 15 anni: era il 1983 e mi iscrisse al Partito Radicale. Poi, nel 2009, a ferragosto, mi capitò di rivederlo perché m’invitò a quell’incredibile maratona radiofonica che era la «conversazione settimanale con Pannella»: tre ore di dialogo surreale e indimenticabile. Nel periodo immediatamente successivo ci sentimmo abbastanza spesso, ma io, d’un tratto, non mi feci più vivo per due diverse ragioni. La prima è che era iniziato quel meccanismo per cui lui Pannella tendeva a fagocitare le persone. La seconda è che avevo scoperto, dall’oggi al domani, che mio padre stava morendo per un tumore ai polmoni, come ieri Pannella. A essere precisi: Pannella, quando apprese di avere un tumore al polmone, nel 2014, aveva esattamente l’età che aveva mio padre quando apprese del suo. Ed ecco: nel mese che seguì, prima delle esequie, a parte pochissimi amici, ci fu una sola persona di media conoscenza - Marco Pannella - che continuò a telefonarmi, a chiedermi di mio padre, ogni volta ricordandosi ogni minimo particolare, senza poi avere null’altro da chiedermi o da dirmi. E ho imparato che ci sono persone così, eccessive nel bene e nel male, capaci di una generosità improbabile e però autentica, di un trasporto a cui loro, per primi, non possono resistere. Pannella faceva così con me, ma l’aveva fatto con un intero Paese per mezzo secolo. Pannella era un uomo che amava troppo. Mio padre - fumatore sino all’ultimo, ovviamente come Pannella - morì per quella che nei fatti è un’eutanasia non dichiarata: dormendo con un sonno indotto da sedativi; esattamente come Pannella, che mercoledì rispose «sì grazie» quando glieli proposero. A suo modo, un’altra battaglia vinta sotto il naso di tutti: un sereno sberleffo a quella cappa narcotica che ha sempre circondato, da noi, le cose che si fanno ma che non si dicono. Pannella le diceva sempre, tutte. Ci ha sempre messo la faccia. Ieri, anche il corpo. E che impressione, meno di due ore prima della notizia della morte di Pannella, ieri, incontrare per caso Giuseppe Englaro, il padre di Eluana, un altro pazzo di cui questo Paese ha avuto tremendamente bisogno. Di pazzi, abbiamo avuto bisogno: di un Pannella per togliere il divorzio e l’aborto dalla clandestinità, di un Tortora per accorgerci che la giustizia fa schifo, di un Berlusconi per portare la tv privata in Italia, di un Craxi per modernizzare il Paese, di uno sbirro molisano per fermare un finanziamento illecito che rasentava il racket. Pazzi sì: per compensare il perenne ritardo della politica nei confronti di quella società che siamo noi.
Non lo voglio scrivere il coccodrillo di Pannella, l’ho già scritto tre anni fa su questo stesso giornale, era il 19 dicembre 2012 e scrissi così: «Pannella è uno dei più onesti e disinteressati uomini politici della storia repubblicana, uno dei pochi grandi e veri personaggi che ho avuto l’onore di conoscere decentemente. E non ho voglia di aspettare che muoia per scrivergli tipicamente un coccodrillo retorico: voglio scriverglielo da vivo». Era, appunto, il 2012: per avere Pannella in tv quell’estate, a una trasmissione che conducevo su La7, dovetti penare le pene dell’inferno: «Pannella non fa ascolti», dicevano tutti. Era vero, ma risposi: «Chi se ne frega». Per un giorno tornai a sentirmi giornalista.
Dopodiché, ora, che cosa dovremmo fare? L’elenco? Tutte le cose che Pannella ha combinato in vita sua? Figurarsi, non basta la Treccani, forse neanche la bella biografia che gli ha dedicato Walter Vecellio. Parliamo di uno di cui Jean-Paul Sartre si diceva affascinato, uno che fece iscrivere Eugène lonesco al Partito Radicale, che fece dire a Umberto Eco: «Pannella ha insegnato agli italiani come si fa a diventare liberi, e soprattutto a meritarselo». Indro Montanelli invece lo definiva «un figlio discolo, un giamburrasca devastatore, ma in caso di pericolo sarà il primo ad accorrere in soccorso». Pannella: fascista, comunista, provocatore, qualunquista, destabilizzatore, uomo dei cento referendum e dei mille digiuni, del divorzio, dell’aborto, dell’obiezione di coscienza, per i diritti di tutte le minoranze, delle marce antimilitariste, personaggio pagliaccesco e di grande eleganza intellettuale, frequentatore di Benedetto Croce e Mario Pannunzio, Ernesto Rossi e Umberto Terracini, Elio Vittorini e Pier Paolo Pasolini, Ignazio Silone e Riccardo Lombardi. Pannella e Gandhi, Cicciolina e Toni Negri, Enzo Tortora e Luca Coscioni, le canne e le sigarette, e la partitocrazia, lo strapotere dei giudici, il Parlamento degli inquisiti, l’ambientalismo, Mario Pannunzio e Il Mondo, il Partito Radicale e la Radio pure, Bruno Zevi e Giovanni Negri, la liberalizzazione della cannabis, il partito che sta (sempre) per chiudere, la fame nel mondo, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, Domenico Modugno, le dimissioni di Giovanni Leone, Leonardo Sciascia, il cartello-sandwich alla Rai, la pena di morte e Nessuno tocchi Caino, l’autofinanziamento del partito, il referendum con Mario Segni, la Bonino commissario europeo, il Dalai Lama, la Corte Penale Internazionale, l’hashish in piazza, Emma for president, la Cecenia, la procreazione assistita, l’interventismo pannelliano in Kosovo e in Afghanistan, l’Associazione Coscioni, Piergiorgio Welby, la moratoria contro la pena di morte, le carceri, l’amnistia, la rinuncia al vitalizio, i quattro bypass, i due tumori, le due sessualità, le mille sigarette, Marco Pannella, una vita sua e nostra.
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Guido Gentili per Il Sole 24 Ore
Alla fine se n’è andato con un “grazie”, lasciando la sua soffitta nel cuore di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, e avendo come solo orizzonte un fulmineo, e pietoso, ricovero. Quell’unica parola, “grazie”, gli dovrebbe essere ora tributata dalla comunità civile e politica, senza distinzione alcuna.
Grazie Marco Pannella per esserci stato, per aver fatto politica come l’ha fatta: a tutto campo, nel quartiere che amava, per strada, in giro per il mondo, negli appuntamenti di partito così come nelle aule parlamentari, a Roma e in Europa. Senza riserve, senza risparmiarsi, con una passione autentica e mai ipocrita, facendo pensare e discutere davvero.
Pannella è un caso irripetibile e incomprimibile. Pannella è Pannella, e anche la storia, per la quale ha scritto col movimento dei Radicali pagine memorabili in tema di libertà e diritti, dovrà prenderne atto, evitando di etichettarlo. La sua biografia personale e politica è un fiume in piena, padre abruzzese, madre francese, uno zio monsignore (Don Giacinto, l’unico della famiglia «con interessi culturali», spiegò), una serie infinita di successi e insuccessi politici dagli anni ’50 ad oggi. Fondatore e Rottamatore, di politiche e uomini. Parlatore instancabile, brillante e noioso: straordinarie certe sue Conversazioni della domenica alle 17 su Radio Radicale con lo storico direttore Massimo Bordin, tra sbuffi di fumo, ira e pazienza. Digiunatore per protesta (ma al lottatore e propositore politico questa parola non piaceva). Divagatore astuto quando necessario. Realista e sognatore. Tutto insieme, divorato dalla sigarette e dalla politica. E personalmente indifferente al denaro come l’Enrico Cuccia tratteggiato da Indro Montanelli. Il che, nella politica e nella finanza, è un dato che si fa apprezzare.
In economia il suo maestro fu Ernesto Rossi, uno dei padri del Manifesto di Ventotene per l’Europa federalista. Rossi era un antimonopolista ruggente – compreso quello sindacale - e fustigatore del capitalismo assistito. Cose da sinistra liberale, come può dirsi in parte di Pannella, il quale però faceva riferimento (anche) alla Destra storica. Nella ventata referendaria del 2000 in cui si proponeva anche l’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (venti referendum proposti, solo 7 ammessi dalla Cassazione, nessuno passato) c’è tutto il liberal-riformismo di Pannella e ed Emma Bonino. Che alla fine – come era avvenuto e continuò ad avvenire in seguito anche per il debito pubblico - restarono però soli. Nel 2000 Silvio Berlusconi e i suoi alleati non se la sentirono di affondare il colpo. Ma a vedere lungo sui cambiamenti della società, allora come negli anni Settanta, a partire dalla battaglia per il divorzio, furono i Radicali, nessun altro.
Grandissimo, Pannella, lo è stato però anche nei difetti. Ieri Daniele Capezzone, allievo importante della scuola politica (d’eccellenza) radicale, oggi parlamentare dei Conservatori e Riformisti, ha scomodato il filosofo Schopenhauer e “Il mondo come volontà e rappresentazione”: “un’affermazione potente e assoluta di volontà, di soggettività, di riconduzione della realtà a ciò, e solo a ciò, che un uomo – in questo caso, lui, Marco- voleva e vedeva”. Esagerazioni? No. Ha scritto un radicale doc come Massimo Teodori: Pannella “ha vissuto l’azione politica come la forma più nobile di realizzazione della sua stessa personalità, fortissima e strabordante, e attraverso essa ha tracimato in tutte le direzioni”.
D’altra parte Pannella è stato anche “Il signor Hood” della canzone che Francesco De Gregori gli dedicò molti anni fa: “Era un galantuomo sempre ispirato dal sole, con due pistole caricate a salve e un canestro pieno di parole”. Oggi da quel cesto ne tiriamo fuori solo una: grazie.
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Antonio Padellaro per il Fatto Quotidiano
Ho cominciato a fare il cronista politico all’inizio degli anni Settanta e Marco Pannella, già allora, era Marco Pannella e tale lo è rimasto fino a ieri, esempio unico di longevità politica su cui, come tanti nel mio mestiere, potrei raccontare mille episodi. Mi limiterò a riportare un sentimento e un flash. Tutti, naturalmente, legano la figura di Pannella e dei Radicali alle storiche battaglie sui diritti civili, dal divorzio all’aborto. Giusto, ma solo quelli della mia generazione possono ricordare il profumo di libertà che respirammo in quegli anni. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse squarciato il sipario di quell’Italia bigotta e ipocrita, dove di “certe cose” si poteva parlare solo sottovoce, dove gli uomini vivevano ancora piacevolmente immersi nella cultura dei casini, e dove le donne che pretendevano di lasciare dei mariti insulsi e maneschi, erano giudicate semplicemente delle puttane.
Ci voleva un grande coraggio per mettersi contro quella cultura dominante e maleodorante. Bisognava metterci la faccia, farsi chiamare frocio e drogato, sfidare le censure, imbavagliarsi davanti alle telecamere, essere considerati dei pagliacci, farsi scomunicare dai cardinaloni, e stare lì e non mollare e insistere, insistere, insistere. Pannella lo ha fatto per tutti noi e ai molti che oggi si riempiono la bocca per celebrarlo, lui dovrebbe chiedere: ma quando io mi sbattevo per voi, voi dove eravate? Formidabili quegli anni, per dirla con Mario Capanna, un altro che si può giudicare come si vuole, ma che insieme a Pannella, a Emma Bonino e ai pochi altri di cui dovrei ricordarmi ma che non ricordo, sapevano trasmettere energia pura alla politica, in un impasto di passioni e malizie, perché non erano angeli né volevano far credere di esserlo.
Votare Pannella a quei tempi (e io l’ho votato) era un modo per distinguersi, per sentirsi più avanti, per rivendicare il diritto di fare del nostro arretrato Paese una democrazia moderna, fondata sulle legalità, ancorata ai valori occidentali, nemica delle dittature rosse e nere, amica della Costituzione americana, della dichiarazione dei diritti dell’uomo e di ogni diversità purché “umana”. Facile rivendicarlo adesso perché furono anni terribili. Gli anni di piombo dell’uccisione di Giorgiana Masi, del ministro di polizia Cossiga, gli anni delle stragi di Stato, del terrorismo, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro.
Ma porca miseria furono anni vivi, vitali, elettrici. Non quella poltiglia di stupidità collettiva in cui ci siamo immersi. Pannella lo trovavi sempre in prima fila e se qualche conto non tornava potevi essere sicuro che da quell’instancabile rompicoglioni che era non avrebbe dato tregua ai “ladri di legalità”.
Questo è il sentimento mentre il flash è un congresso del Pci in piena Prima Repubblica. Immaginate quella scena di film di Ettore Scola, La Terrazza, con il Palasport dell’Eur gremito e silenzioso come una cattedrale rossa, e sul palco l’accigliata nomenklatura dei Berlinguer, degli Ingrao, dei Cossutta, dei Napolitano che altera e severa si fa carico dei problemi del Paese che sembra, immancabilmente, destinata a governare. Improvvisamente, irrompe sulla scena Marco Pannella accolto da un tiepido applauso e da qualche mormorio. Indossa un ampio mantello scuro che dà ancora più risalto al profilo aguzzo e agli occhi fiammeggianti. Visto dalla tribuna stampa sembra una presenza infernale, venuta a portare scompiglio in quel sinedrio di probi e di eletti. “Sembra la maschera di Nosferatu”, mormoro a Lietta Tornabuoni che mi sedeva accanto, accreditata anche lei per il Corriere della Sera.
Siamo nel 1979 ed era in quei giorni nelle sale il film di Werner Herzog, Nosferatu il principe della notte, con il vampiro interpretato da un demoniaco Klaus Kinski. Ecco, a piacermi di meno di Pannella era questa sua vena esibizionista e teatrale, in quel caso il voler fare colpo su quell’aristocrazia comunista che sotto sotto disprezzava, adeguatamente ricambiato dal ceffone ricevuto il giorno che aveva provato a bussare al portone di Botteghe Oscure. Spesso mi sembrava arrogante e inutilmente logorroico, come quando conquistato finalmente uno scranno a Tribuna Politica s’impadroniva del microfono con dei pipponi zeppi di subordinate e, sospetto anche, infarciti da qualche voluta supercazzola. Forse non c’eravamo simpatici, ma è meglio così. Per rispettare (e ammirare) qualcuno non occorre andarci a braccetto o chiamarlo confidenzialmente “Marco”, cosa che non ho fatto mai.