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 2016  maggio 19 Giovedì calendario

Elogio di Francesco De Gregori, che non ci ha mai tradito

Parafrasando Pablo, sì, proprio Pablo Neruda, è possibile affermare che nelle canzoni di Francesco De Gregori vive il “canto generale” italiano degli ultimi nostri decenni, un canto generazionale ora struggente ora felice ora – pensando a “La storia” con il suo “piatto di grano” – “civile”. Nel senso che questo suo canto ha nutrito il nostro quotidiano parlar d’amore, di emozioni, e anche di barricate. Lo ha fatto quasi sempre lontano dalla retorica, lo ha fatto, direbbero i semplici che si improvvisano anime belle, grazie alla lucente trigonometria di un cuore ragazzo. Come sempre accade con i poeti, ossia coloro che trovano per noi le parole per i giorni di pioggia e perfino per i giorni di sole accecante, il timore d’essere infine delusi dai nostri “divi” è sempre dietro l’angolo, è anzi una regola fissa che contempla la realtà del troppo amore. Il tempo storico che scorre e tutto consuma compie il resto. Nel senso che sarebbe davvero meraviglioso riuscire a restituire ai ragazzi e alle ragazze venuti dopo la pioggia e la risacca di certi anni di rivolta i sospiri esatti di “Rimmel”, il sentimento chiaro di una stagione, oppure, andando ancora indietro, i giorni dell’album con la pecora, l’agnus dei di una ideale via Giulia in copertina. Dico così e subito mi tornano in mente questi suoi versi: «Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi… Mia madre è sempre lì che si nasconde dietro i muri e non si trova mai e i fiori nella vasca sono tutto quel che resta e quel che manca, tutto quel che hai e puoi chiamarmi ancora amore mio».
Un filosofo francese dalla lunga barba, sorta di Mago Merlino del pensiero selvaggio, decenni e ancora decenni fa, ha cercato di sondare nero su bianco l’Inesprimibile, la “Rêverie”, ovvero il mandala cosmogonico dei sogni, probabilmente senza pienamente riuscire nell’intento, tuttavia costui ci ha lasciato in deposito un sentire chiaro circa l’esistenza di una “metafisica dell’indimenticabile”.
Bene, le canzoni di FDG vivono in quel dominio, abitano quell’altana, di più, custodiscono ora e sempre lo spessore e il brillio di un tempo storico ed erotico irripetibile, un’Italia al mattino che mai più farà ritorno a noi insieme al suo incanto poetico e perfino quotidiano. Comprese, si spera, le sue bombe “fasciste” e “di Stato”.
Mi torna adesso in mente, a proposito della “deminutio” del ruolo del “cantante” (o se preferite del cantautore), che è poi uno dei molti temi che figurano nel libro A passo d’uomo scritto da FDG per Laterza insieme a Antonio Gnoli, l’antico disappunto di alcuni poeti “ufficiali” rispetto a una canzone dove De Gregori ironizzava proprio sulla modestia di questi ultimi: «Vanno a due a due i poeti verso chissà che luna/ amano molte cose forse nessuna/ alcuni sono ipocriti e gelosi come gatti/ scrivono versi apocrifi faticosi e sciatti/ sognano di vittorie e premi letterari/ pugnalano alle spalle gli amici più cari».
Bene, il tempo gli ha dato ancor più ragione, in assenza di una reale, attiva e operante società artistica che sappia trasformare se stessa, come direbbe Pasolini, in “contestazione vivente” rifiutando così di “applaudire i luoghi comuni”, in questo stato di cose il canto di De Gregori, perfino nei momenti in cui sceglie con Bob Dylan di “ciancicare” la memoria esatta delle proprie canzoni, surclassa appunto gli altrui silenzi, l’opacità di un ceto intellettuale di sinistra che non sembra esistere oltre la propria subalternità ora ai Veltroni ora ai Renzi.
Senza bisogno di ritrovare le parole del pensatore anarchico secondo cui “la coerenza appartiene soltanto a chi non ha idee”, suonano davvero secondarie le obiezioni piccate da muretto dell’inquisizione web di chi recentemente ha imputato a De Gregori di avere detto che oggi “acquisterebbe un’auto usata da Craxi piuttosto che da Di Pietro”.
Il punto è semmai il deserto in cui siamo. Per spiegare cosa è accaduto a tutti noi, occorrerebbe semmai inventare una macchina del tempo, sì, un’autoclave poetica in grado di scavare all’indietro nei decenni, fino a restituire a chi scopre adesso il mondo delle sue canzoni che talvolta può esistere un catasto magico delle emozioni che si fa, appunto, canzone, canto. Questa macchina è De Gregori stesso, le sue intuizioni, le sue insicurezze, i suoi dubbi, il suo, anzi, il nostro malgrado-tutto-andiamo-avanti… Il resto? Inutili dettagli da talkshow.