Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 19 Giovedì calendario

Lunga intervista in cui Staino rivendica il suo appoggio a Renzi e dice tutto il peggio della minoranza Pd

«Mi rimandi l’intervista a rileggere? Allora ’un tu sei presuntuoso». La voce di Sergio Staino, al telefono, è quella di sempre, con l’accento fiorentino che ha seppellito l’amiatino della sua infanzia, essendo il disegnatore nato a Piancastagnaio nel 1940. Il padre, anzi il babbo, di Bobo, prototipo di militante comunista che l’allora architetto Staino, insegnante nelle scuole medie, consegnò alle pagine di Linus, allora diretto da un altro toscano: l’elbano Oreste Del Buono.
Da allora, Bobo, la moglie e i figli, diventarono il paradigma familiare della sinistra storica, quella del Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd, rappresentandone le passioni e i dubbi, le gioie e le amarezze. Da tempo ormai Staino è entrato in rotta di collisione con i compagni di una vita, quelli che oggi danno corpo alla sinistra interna del Pd, per il loro crescente antirenzismo. E, alle rimostranze, non peritandosi dal consigliare loro di pensionarsi, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani in particolare. Polemica portata avanti sostanzialmente con l’ironia e il sarcasmo delle sue vignette che oggi prendono corpo nel romanzo a fumetti edito da Giunti Alla ricerca della pecora Fassina. Una polemica che sembra destinata ad acuirsi, ora che la minoranza dem sembrerebbe tentata dal «no» al referendum.
Staino, lei sta facendo arrabbiare molti, a sinistra.
«Un pochino la sinistra dem, è vero. Ma più di tutto, in questo momento, i grillini».
Ce l’hanno così tanto con lei?
«Bè, non passa giorno che non mi indirizzino tweet offensivi e piuttosto volgari».
Che, credo, non scandalizzino uno come lei...
«Esatto. Il problema è che dicono cose senza senso».
Del tipo?
«Mi danno del venduto, mi dicono che parlo così perché sono “alla greppia de L’Unità”. L’unico un po’ divertente e che ritorna assai spesso dice “Staino farebbe ridere di più se si cacciasse la matita nel culo”. Io provo pena per l’umile e meravigliosa matita, ovviamente».
Senta però con lei, stavolta, vorrei parlare di Pd, ossia un po’ della sua storia, e di Matteo Renzi, che lei un tempo criticava, ma che oggi difende.
«La cosa è paradigmatica».
E cioè?
«Io fui tra i primissimi a tentare di ostacolare Renzi a Firenze, quando cercò di diventare sindaco ed oggi mi ritrovo a subire l’orribile accusa di “renziano”. Orribile la ritiene almeno chi me la lancia, non certo io. Comunque non mi stava simpatico anche perché la sua storia rimandava un po’ a quell’atmosfera uscita oggi dall’inchiesta sull’Etruria: curia, Opus Dei, massoneria, verdiniani...».
Presenze scomode che ora non vede più?
«Beh, non è facile vederle ma sono zone grigie di intensità variabile trasversali a tutta la politica, anche in Toscana. Lo stesso Partito comunista non ne è mai rimasto estraneo. In più c’era l’atteggiamento di fondo».
Sempre di Renzi?
«Sì. Renzi si presentava con un piglio da rampantino puntando diritto alla risoluzione di problemi senza tenere in conto i mezzi che utilizzava, anzi, sui mezzi direi che era proprio di bocca buona. Uno stile che i berlingueriani come me avevano sempre criticato in Bettino Craxi. L’arrivo di Renzi ha però coinciso con un altro fenomeno sviluppatosi nell’allora partito comunista».
Quale?
«Un sostanziale abbassamento della qualità politica dei dirigenti, sia a livello nazionale che locale. Una abbassamento derivato dalle guerre intestine fra i più giovani eredi della segreteria Berlinguer, una guerriglia che ha portato a cooptare nelle sedi dirigenti persone più fedeli a qualcuno che persone dotate di un cervello un po’ scomodo. D’Alema è stato il capostipite di questo stile».
E gli altri?
«Neppure gli altri ne sono stati immuni. Questo spiega la stanchezza e il risentimento di tanti militanti nei confronti di una dirigenza poco coraggiosa e poco innovativa. Renzi si presentò come il nuovo e l’idea del Rottamatore affascinò tantissimi nostri elettori».
Siamo ai tempi del famoso grido di Nanni Moretti in Piazza Navona: «Con una classe dirigente del genere, non vinceremo mai».
«Precisamente, anche se Moretti, pur aprendo alla società civile, diede il via ad una forma di protesta distruttiva, che culminerà nel “vaffanculo” di Beppe Grillo e, oggi, di Matteo Salvini».
E su quest’onda di rinnovamento il Rottamatore stravinse.
«Certo, anche perché, per quanto stabilito dallo statuto sulle primarie, tutti potevano andare ai gazebo e Renzi ne seppe approfittare».
In che modo?
«Convincendo a venire a votare moltissime persone lontane dal Pd, verdiniani compresi».
Già allora, Staino? Ma si era nel 2009.
«Eh ma Denis Verdini, a Firenze, non è mica nato ieri: è sempre stato una presenza forte e spregiudicata fin dai tempi in cui era nel partito repubblicano con Giovani Spadolini. Credo poi che nei confronti di Matteo abbia sempre avuto simpatia e ammirazione che andavano al di là delle scelte politiche».
Comunque alla fine, nel 2013, Renzi diventa segretario del suo partito. Come l’ha presa?
«Come vuole che l’abbia presa? Come la deve prendere un qualunque democratico, ho rispettato l’esito delle urne: il segretario, mi son detto, è lui, Renzi, fino al congresso successivo, gli si dà una mano anche se in un rapporto dialettico, chiamiamolo cogestione critica. E, nel frattempo, si studia il perché si è perso, che cosa è cambiato nella società, e cosa si deve fare per costruire un’alternativa».
E invece?
«E invece, questi, un minuto dopo, hanno cercato la rottura. E il primo a farlo è stato una delle persone che più ho amato e su cui avevo riposto le mie speranze di rinnovamento, ossia Gianni Cuperlo. Con mia grande delusione, lui prima ha rifiutato la presidenza del partito e poi, cosa ancor più grave, la direzione de L’Unità».
Effettivamente Renzi aveva fatto più di un passo.
«Un grande atto unitario, cosa non facile per Renzi e che infatti, dopo, s’è ben guardato dal ripetere».
Cosa avrebbe significato, se Cuperlo avesse accettato?
«Realizzare giornale aperto al dibattito e al confronto, un giornale che poteva esser letto sia dalla maggioranza e sia dalla minoranza, e che collegava il centro del partito e il governo con l’attività politica sul territorio».
Ma lui ha detto di no, appunto.
«Gianni non ha accettato, anche perché, ne sono certo, ha subito forti pressioni da parte dei miei vecchi dirigenti. È nato subito il concetto di “traditore”, quello spettro che guizza fuori ogni volta che un gruppo politico scivola nel settarismo. Adesso mi fanno ridere quando, in direzione, Cuperlo e altri accusano Renzi di una gestione centralista e non collettiva, quando proprio loro, ogni volta che si è aperta una porta in questo senso, l’hanno accuratamente richiusa per paura di contaminarsi».
Qualche difetto a Renzi, lei glielo trova ancora?
«Ma certo. Ha un background totalmente diverso dal nostro, credo che con Gramsci non c’entri nulla, e forse non ha neppure molta cultura alle spalle. Però...».
Però?
«Però gli va dato atto che almeno su certe cose ha le idee chiare e si muove con molto coraggio. La cosa che più mi ha commosso è la risposta al cardinal Angelo Bagnasco».
Sule unioni civili...
«Sì quando ha detto di aver giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo. Quanti dei nostri vecchi dirigenti, sempre impauriti di perdere il voto cattolico, avrebbero trovato un coraggio simile? E poi il modo con cui ha guidato lo scontro con le posizioni oltranziste dell’Europa sull’austerity, o come ha posto, sempre in sede europea, il problema delle migrazioni».
Passiamo ai difetti.
«Sul fronte del lavoro non mi piace la facilità con cui liquida spesso il ruolo dei sindacati e come segretario non mi piace la trascuratezza che mostra nei confronti del ruolo del partito sul territorio».
Morale?
«Che luci ed ombre di Renzi vanno prese in considerazione con serietà critica e con rispetto, non con gli urli isterici di gente che soffre perché ha perso una poltrona».
La critica sul sostegno di Verdini fa parte di queste urla?
«Certo. Se ci sono persone che non sono assolutamente autorizzate ad urlare su questo sono proprio i miei amici della Sinistra dem. Il compromesso con persone lontane dal nostro partito come idee e comportamento è stato all’ordine del giorno. Abbiamo accettato e sopportato i voti di tantissimi Verdini».
Nomi, Staino, nomi.
«Da Vittorio Cecchi Gori ad Antonio Di Pietro, da Clemente Mastella a Lamberto Dini, per citare i primi che mi vengono in mente. Perché, mi scusi, c’è qualche differenza politica, ideologica, morale tra Verdini e Dini? Io non ne vedo, eppure Lamberto Dini è stato ministro degli Esteri nel primo governo guidato da un comunista, Massimo D’Alema. L’abbiamo sopportato, ecco, anche Dini. Ora non va bene niente. E mi dicono: “Basta votare per il meno peggio”».
E lei?
«E io dico che votare “il meno peggio”, che coincide guarda caso con il “meglio”, è la regola della democrazia. La democrazia ti obbliga a scegliere, sempre. Ricordo quando Adriano Sofri contestò chi non voleva scegliere fra John Kerry e George W. Bush alle presidenziali, perché tanto erano uguali, entrambi per la pena di morte».
E Sofri che cosa disse?
«Rispose che, fra chi era favorevole alla pena di morte e chi ne era entusiasta, sapeva chi scegliere».
Come ricostruirebbe questo Pd, Staino? Qualche anno fa un’idea l’aveva avuta Barca, ma parve un po’ novecentesca.
«Dell’idea di Barca condividevo l’analisi sulla fine dell’egemonia di un gruppo dirigente rivoluzionario formato in genere da intellettuali che segnava la via politica a una massa enorme di diseredati affamati e analfabeti. Oggi abbiamo una massa enorme di gente ancora in sofferenza sicuramente, ma colta, capace di informarsi e di giudicare e quindi tutta la struttura di partito va ripensata in modo che le idee non scendano più dall’alto verso il basso ma si sviluppino dialetticamente nei due sensi. Questo è quello che occorrerebbe fare oggi ed è la cosa, a mio avviso, più difficile per Renzi».
Più difficile perché non gli interessa?
«Sì, è così, anche se all’inizio la Leopolda andava in questa direzione, infatti ci andai. E mi arrabbiai con Bersani che l’aveva boicottata. Ai giornalisti che mi chiedevano perché fossi là, rispondevo che non capivo perché non ci fosse lui, il segretario: c’erano 2mila compagni da tutta Italia, spesso amministratori, incazzati neri. Fu il primo grande errore della vecchia guardia».
Ma nemmeno la Sinistra Dem si muove molto sul terreno del partito.
«Infatti. Stanno dietro a fare le pulci agli atteggiamenti di Renzi e dimenticano il mondo che ci circonda».
Che dovrebbero fare?
«Uscire dal parlamento e andare tra la gente, dove ci sono le contraddizioni. Avete visto che nessuno di loro ha fatto neanche capolino alla frontiera del Brennero?».
Sull’erigendo muro anti-immigrati.
«Certo. Se invece che lasciare lo spazio agli antagonisti dei centri sociali ci fosse stata gente normale, di sinistra, potevamo aiutare l’Austria a non scendere su quel terreno così simile al fascismo. Il Pd si ricostruisce dalla cultura bella che è sul territorio, non solo dai libri, ma ovunque c’è un gruppo di persone che lavora per migliorare la produzione, per migliorare la cultura, per migliorare la difesa del territorio».
Dove sono gli amici dem in questi campi?
«Ma nelle cooperative sociali, in Slow Food, nel volontariato, nei cineclub, nelle scuole, nella terra, nei centri di accoglienza, nelle carceri, tra i tanti, tantissimi, che son pronti a dare una mano. C’è tanta solidarietà in giro, che non è solo la Caritas, che fa bene il suo lavoro. Questi mondi non sono una struttura politica, ma indicano una strada: ricreare una coesione sociale».
E Renzi?
«Renzi non ci sente, secondo me. Ed è difficile spostarlo da lì: lui fa due tweet e via. Secondo me non basta. Le persone le devi far sentire protagoniste, come nel ’68. Eravamo tutti giovani, tutti uguali, solidali, e ci sentivamo protagonisti».
Staino, mica vorrà rifare la rivoluzione?
«Ma certo che no. Vorrei però, come dice Marino Sinibaldi, spostare la giustizia sociale e la cultura della società di un millimetro. Sarebbe già tantissimo».
Dopo il referendum, Renzi vorrebbe andare a congresso.
«In questo momento l’unico candidato è lui».
Ma come, il suo governatore, Enrico Rossi?
«Mah, una candidatura generosa, certo. Vedo però affilarsi molte armi».
In che senso?
«Nel senso che nello statuto del Pd c’è scritto che il segretario deve essere il candidato del partito alle elezioni successive. Ora se si candida Rossi, perché Vasco Errani, Maurizio Martina o Sergio Chiamparino, lo stesso Orfini, dovrebbero stare un passo indietro? Si elimineranno a vicenda e Renzi vincerà ancora».
A gravare su questa prospettiva politica, c’è un nuovo ruolo della magistratura, o meglio della sua associazione sindacale che, con Piercamillo Davigo, vuol tornare a giocare un ruolo molto politico, sembrerebbe.
«E infatti la cosa mi preoccupa e non poco».
Spieghiamo, perché?
«Beh io ho avuto sempre una visione, non dico negativa, ma molto cauta della magistratura. Quando ho avuto a che fare coi tribunali, in passato, non è stato molto piacevole. Sono stato amnistiato in gioventù per un reato di vilipendio che non avevo mai commesso, ho seguito con dolore la vicenda di Enzo Tortora e ancor più, per amicizia personale, quella di Sofri, due dei più grandi errori giudiziari del nostro secolo».
E dunque dei magistrati che pensa?
«Quando sento dire da un giudice che la loro corporazione è l’unica onesta oggi in Italia, mi vengono i brividi. In genere queste frasi le pronunciano i militari prima di un golpe. I giudici dovrebbero guardarsi allo specchio con molta più modestia e questo dovrebbero farlo tutti, naturalmente. Personalmente confido molto in Andrea Orlando».
Le piace il Guardasigilli?
«Secondo me è uno dei migliori che abbiamo avuto. Pacato e competente: l’uomo giusto. Ma non sarà semplice».
Perché?
«Perché paghiamo lo scotto di aver esaltato aprioristicamente le toghe, quando era comodo delegare loro l’attacco a Berlusconi. È l’errore di Libertà e giustizia, il limite dei vari Gustavo Zagrebelsky, gente a cui voglio bene, a cui sono legato anche da amicizia, ma che penso sbaglino in questa esaltazione continua della legalità».
Che cosa bisogna esaltare, Staino?
«Bisogna esaltare sempre la legalità ma senza mai disgiungerla dalla generosità e dalla democrazia».