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 2016  maggio 19 Giovedì calendario

Il santuario dove le Figlie di Maria conservano e rattoppano oltre diecimila lenzuola, dal Seicento ad oggi

Il numero esatto delle lenzuola, stivate con ordine impeccabile nei grandi armadi di noce del Santuario, nessuno di preciso lo sa. Diecimila, dice l’archivista di Oropa, Danilo Craveia, ma suor Antonietta, 83 anni, sostiene che, se una volta erano più di 12 mila, oggi potrebbero essere un po’ meno perché «più nessuno vuole vedere un letto con un angolo rammendato – spiega rassegnata -. E allora ogni tanto qualche pezzo lo dobbiamo trasformare in stracci».
Nel loro mondo sospeso, le Figlie di Maria (ordine voluto dalle infante Maria e Caterina di Savoia nei Seicento) con ago e filo difendono un tesoro. A pochi viene concesso di scendere nel guardaroba, orgoglio del Santuario, dove solo loro si prendono cura dei candidi lini, delle più antiche tele di canapa, tutte commissionate agli opifici biellesi a partire dal XVII secolo.
Ricami e rammendi
Quei «ricami» (più che rammendi) che continuano con gesti sapienti – gesti d’amore incondizionato – ad apporre sui punti deboli del tessuto, rendono la biancheria unica, perfino preziosa, anche se oggi i pellegrini che dormono a un passo della Madonna Nera li guardano con occhi diffidenti.
Le lenzuola riposano ordinate e «marchiate» a punto croce col filo rosso e il simbolo di Oropa: sono piegate sugli scaffali, la stessa misura per tutte e lo stesso spessore. Dall’altra parte del deposito c’è la lavanderia che spande vapori e profumo di bucato. Due lavatrici industriali oggi restituiscono la biancheria pulita, ma sotto le volte a botte, incastonata fra i muri piastrellati, c’è ancora una grande vasca dove una volta si lavava a mano e, sul soffitto, un pertugio dal quale venivano calate le lenzuola sporche.
«Ci volevano braccia forti per strizzare tutti quei teli – prosegue suor Antonietta -. Li mettevamo nella centrifuga, poi si girava a mano e il bucato si stendeva all’aria aperta».
Le immagini, di quelle barriere mobili e bianche, ostaggio del vento e asciugate dal sole che a Oropa, a mille e più metri di quota, è caldo davvero, sono ancora conservate negli archivi del Santuario. Un quadro che si dipingeva daccapo ogni estate.
«I pellegrini venivano solo con la bella stagione. In inverno era troppo freddo. Quando entrai nelle Figlie di Maria – ricorda suor Antonietta – le stanze non avevano riscaldamento, qualche camino, coperte di lana belle spesse e uno scaldino con l’acqua bollente da passare nel letto prima di entrarci. Avevo 17 anni, mi accompagnarono qui da Villata (nel Vercellese) i miei genitori. In famiglia erano contrari e mia sorella piangeva disperata. Era ottobre, una giornata da fare paura, Oropa era avvolta da una nebbia fitta e umida. Ma sono ancora qui, dopo tutti questi anni. Rammendo e cucio tutto il giorno, ed è una gioia anche se lo sappiamo che non ci sarà nessuno che prenderà il nostro posto».
Ancora nel Novecento le Figlie di Maria erano tante, pronte a trasformare un lenzuolo matrimoniale in singolo se era troppo consumato; a staccare i pizzi filet danneggiati dagli asciugamani e a sostituirli con quelli nuovi. «Ora le lenzuola più vecchie le mettiamo nelle camerate dei ragazzi che, a qualche imperfezione, non fanno caso. Quelle belle vanno nelle suite, ma sono cose di una volta. I tempi sono cambiati, la biancheria deve essere nuova e gli asciugamani di spugna. Chissà dove tutto finirà».
L’assedio
Leggendario anche il racconto che don Michele Berchi, rettore di Oropa, spesso racconta quando accoglie i pellegrini in visita nella cittadella mariana più alta dell’arco alpino.
«Le nostre lenzuola hanno resistito all’invasione napoleonica – spiega -. Nel piazzale davanti alla chiesa l’esercito allestì un ospedale da campo, razziò qualunque cosa incontrata sul suo cammino, ricoverò i cavalli all’interno della basilica. Tutto venne tollerato ma quando i soldati chiesero la biancheria, gli abitanti e i religiosi di Oropa fecero fronte comune. Senza le sue lenzuola il Santuario non avrebbe più potuto accogliere i pellegrini».