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 2016  maggio 19 Giovedì calendario

Cosa succede con Unicredit

Da un lato il mercato che preme per un aumento di capitale di Unicredit. Dall’altro un gruppo di azionisti forti litigiosi o distaccati, uniti solo, sembrerebbe, dal cercare di evitare questo aumento ed evitare così la loro diluizione nel capitale dell’istituto. In mezzo l’ad Federico Ghizzoni, in uscita ma senza un sostituto perché tra i soci non c’è intesa. Se il governo è preoccupato per Unicredit «è per altre ragioni», dice Luca Montezemolo. Nessun cacciatore di teste al lavoro, ma il toto-nomi indica in ascesa Marco Morelli, attuale responsabile per l’Italia di Bank of America-Merrill Lynch, magari in un tandem con l’economista Lucrezia Reichlin alla presidenza. Intanto si sono chiamati fuori Sergio Ermotti e Andrea Orcel di Ubs e Alberto Nagel di Mediobanca.
Ma secondo le banche d’affari, l’attenzione è più sull’ammontare di un possibile aumento che sulla sua necessità. Per Marta Bastoni, analista di Barclays, a Unicredit servono almeno di sei miliardi di nuovo capitale. Per Equita ne potrebbero bastare cinque. Un rafforzamento necessario, notano dalle sale operative, per mettere l’istituto in linea con le altre grandi banche europee. «Secondo le nostre stime al 2018 Unicredit avrà un Cet1 (il rapporto tra impieghi e capitale più riserve) di 266 punti base inferiore alla media delle banche europee», nota un analista. Troppo poco, anche in considerazione dell’importanza sistemica del gruppo.
A pensarla come Ghizzoni, ovvero che l’istituto può farcela anche senza un aumento, è rimasta Jp Morgan. Tra i grandi broker è l’unico che ritiene raggiungibile l’obiettivo di un Cet1 al 12% nel 2018. Ma solo a patto di accelerare sulle cessioni, continuare a pagare il dividendo in azioni e non in contanti e abbassarlo del 30%. Intanto, l’impatto positivo sul Cet1 del dividendo in azioni (14 punti) è stato annullato dall’effetto negativo dell’impegno in Atlante (-16 punti). E la cessione di Pioneer, che dovrebbe portare un beneficio di 25 punti base, è bloccata da un anno.
Troppi sacrifici e troppe incognite, per gli azionisti del gruppo. Soprattutto se comparati con il principale concorrente, Intesa Sanpaolo. E che la distanza tra i due istituti sia sempre più ampia lo dimostra l’andamento dei Cds (Credit default swap, una sorta di assicurazioni sul rischio) sul debito di Unicredit, ormai stabilmente distanti da quelle di Intesa. Circa 50 punti sui bond senior, i più garantiti. Cento punti sui titoli subordinati, i più rischiosi. Ma i soci non hanno intenzione di tirare fuori i soldi. Le fondazioni rischiano una forte diluizione, spiega una fonte. Gli arabi di Aabar, con il loro 5%, dal 2010, hanno stabilizzato le perdite con una operazione finanziaria. A tirare le fila spetta per il momento al presidente Giuseppe Vita. Ma anche lui difficilmente sarà nello stesso posto nei prossimi mesi.