la Repubblica, 19 maggio 2016
Il business dei pascoli rende più della droga
Il nuovo filone d’oro, per una mafia antica che non ha abbandonato i metodi militari, giace sulle inaccessibili cime dei Nebrodi. È lì, su terreni che si estendono per cinquemila ettari, che i clan di Tortorici, Ceasrò, Capizzi, calamitavano fondi pubblici: un business che, si stima, in Sicilia vale un miliardo di euro. Secondo la prefettura di Messina non c’è dubbio: la ratio secondo cui vengono concessi i contributi comunitari e statali, da queste parti, è stata profondamente trasformata. Da aiuti per la produttività delle aziende agricole e zootecniche a sistema di finanziamento di organizzazioni criminali. Fino al 2012, per ottenere i contributi prevalentemente dell’Unione europea, bastava presentare una semplice dichiarazione sostitutiva in cui si dichiarava la disponibilità di un terreno. Sulla base dei dati comunicati, venivano erogati i fondi per la zootecnia. Sostanziosi: basti pensare che un solo capo di bestiame, per l’Ue, vale fino a 202 euro. E fra i Nebrodi pascolano, ufficialmente, 53mila bovini e 150mila ovini. I conti in tasca a chi ha speculato con i fondi Ue li ha fatti ieri il governatore Crocetta: una concessione costa 30 euro a ettaro ma ne frutta tremila. Questa pioggia di denaro a volte raggiungeva chi richiedeva il contributo anche all’insaputa del legittimo proprietario del campo, spesso costretto con minacce e intimidazioni al silenzio. Solo dal 2012 viene richiesto il titolo di proprietà o il contratto di affitto dell’appezzamento. Ma da quell’anno, fra i Nebrodi, la mafia ha fatto scattare la caccia alla terra libera, da contrattualizzare sempre al fine di procacciarsi i finanziamenti pubblici. «Quello dei terreni è un affare che, per valore, ha superato quello della droga», dice Beppe Lumia, senatore Pd e membro della commissione Antimafia.
A inceppare il meccanismo un protocollo di legalità firmato a fine 2014 da Questura e Parco dei Nebrodi. Obiettivo: favorire la massima trasparenza sulle assegnazioni dei terreni. A quel documento si lega l’estensione dell’obbligo di presentare la certificazione antimafia alle aziende che gestiscono appezzamenti di valore inferiore ai 150mila euro. La prefettura di Messina ha dato l’interdizione a 23 aziende su 25. E sono cominciate le revoche. Il 10 aprile il Tar di Catania ha respinto i ricorsi di alcune aziende estromesse dalle concessioni. In questo scenario sarebbe maturato l’attentato. «Un atto – afferma il senatore – che dimostra come la mafia militare sia ancora in azione. Perché quando le tocchi i soldi, Cosa nostra reagisce sempre allo stesso modo: prima o poi spara».